lunedì 29 febbraio 2016

L'attesa

Giovedì di due settimane fa ho fatto il prericovero. Ho trascorso il numero canonico di ore in ospedale, da sola come quasi sempre (per mia scelta, preciso), a fare il classico iter su e giù e avanti e indietro per gli ambulatori del Little Hospital, munita di cartellina di cartoncino con disegnati due personaggi di cartoni animati molto (poco) professionale contenente l'incartamento necessario. Ho esposto all'anestesista i miei timori descritti nel post precedente, e nonostante il colloquio sia stato parecchio particolare (io mi auguro, prego, metto un cero a sant'Antonio perchè NON sia l'anestesista che ho visto a prendersi cura di me in sala operatoria, o scendo dal lettino e pianto tutto), ho avuto i chiarimenti di cui avevo bisogno e le rassicurazioni del caso.
Abile e arruolata.
E adesso aspetto. Sono passati dieci giorni, entro tre settimane dovrei essere ricoverata, tagliuzzata e ricucita. Di nuovo.
Sono i giorni dell'attesa.
Sono giorni così.
(In foto: la Maya che ozieggia beata sull'accappatoio Poweresco appena lavato, ritirato dallo stendino e ripiegato. Impelandolo tutto, ça va sans dire).

Giorni in cui non mi faccio più domande sul senso di quello che sto per fare, come se avessi spento l'interruttore dei dubbi e mi fossi abbandonata a una cosa che deve accadere e basta.
Giorni in cui come la Maya sto con le orecchie tese, perchè comunque la paura un po' rimane, ma aspetto di lasciarmici prendere quando sarà il caso.
Sono giorni di preparativi. Da donna che vuole avere tutto sotto controllo ed estremamente pratica quale sono sempre stata, sto cercando di organizzare le cose in modo che durante la mia assenza e la mia convalescenza i miei uomini debbano trovarsi nella situazione di potersi arrangiare da soli senza chiamarmi ogni due per tre (che tanto lo so, lo faranno lo stesso, lo hano sempre fatto, lo faranno sempre, ma io ho questa innata stupida fiducia nel genere maschile che... lasciamo perdere). E allora pulisco a fondo, riordino a fondo, riempio dispensa e congelatore, lavo e stiro il più possibile, faccio quei lavori che di solito faccio a primavera e che questa primavera so che non potrò fare (tranne lavorare in giardino: è fradicio, non si riesce a fare assolutamente nulla, nemmeno ripulirlo un minimo). Forse è anche un modo per non pensare. Che se penso troppo mi sale un magone che non ha la minima utilità pratica, ad oggi.
Sono i giorni, anzi le sere, delle prove con il coro per Pasqua, che tanto ho il  99 per cento delle probabilità  di non cantare quel giorno (due ore in piedi...), ma ci vado lo stesso perchè cantare mi piace, mi fa stare bene a prescindere.
Sono giorni di "questo ce l'ho? Di questi non abbastanza, devo comprarne altri. Questo mi va ancora bene? In valigia ci starà? Questo non devo AS-SO-LU-TA-MEN-TE dimenticarlo, quello posso lasciarlo a casa, quello devo recuperarlo". Sinceramente non ricordo se le volte scorse ho programmato in questo modo il tempo. Non credo, fosse altro che perchè ai due interventi precedenti sono arrivata talmente stremata dal malessere e dal dolore che non avevo proprio testa per fare altro che subire. Adesso se mi vedesse qualcuno che non sa i dettagli, sembrerebbe che stessi programmando un viaggio di piacere.
Sono i giorni in cui il Power si è portato a casa un bel virus intestinale, e porca paletta no, proprio adesso no, che non stia a fare l'untore perchè il momento non è proprio quello giusto (oddio, non lo è mai, ma questo meno degli altri).
Sono i giorni del "lo dico o non lo dico?". Non l'ho detto a tutti. Anzi, l'ho detto a proprio pochi. Perchè è una cosa, me ne sono resa conto, un po' difficile da capire da fuori, e delicata da esternare. E c'è che mi sono un po' rotta delle frasi di circostanza che arrivano in queste situazioni, perciò evito in partenza di mettere le persone (alle quali per la stragrande maggioranza dei casi in realtà non importa una ceppa) nella condizione di sciorinarle.

Ma sono anche i giorni del "voglio starmene per i fatti miei", e del "non lasciatemi sola".
Voglio starmene per i fatti miei quando alcune persone, e sono sempre le stesse, mi scaricano addosso le loro quotidianità almeno due volte a settimana, iniziando le telefonate sistematicamente con "ciao, sai che mi è successo questo e quello?", e chiudono la telefonata senza essersi chieste se mi interessasse davvero saperlo. Solitamente cerco di essere gentile e ben disposta ad ascoltare, perchè so che a volte si ha bisogno di scaricare, e se qualcuno ti offre la sua fiducia è un dono che ti fa. E di doni come questi, doni di fiducia, non so perchè, ma negli ultimi anni ne ricevo moltissimi. Adesso però no. Per favore, no. Non se mi si deve usare come discarica. Cioè, dimmi pure, sfogati, ma poi ascoltami anche. O non iniziare nemmeno a parlare. E siccome lo scambio reciproco non avviene praticamente mai, ho abbassato drasticamente il livello di tolleranza e installato un risponditore automatico che si limita a dire a ritmo variabile e voce mono-tono "si... no... ma pensa tu... ma davvero... ma dai... ma che brava... eh no...". Oppure, se via WA, ritardo a rispondere. E molto. Sperando che dall'altra parte ci si dimentichi di attendere la risposta. Mi eclisso proprio.
Adesso io sono per me e basta. Sono per me e per quello che mi aiuta a sostenere questi giorni, comprese alcune presenze che no, non mi fanno troppe domande, ma sanno prendermi per il verso giusto. A volte vorrei raggomitolarmi su me stessa e infilarmi in una delle mie scatole dei filati, per starmene in pace a dipanare la mia matassa in silenzio. Non ho voglia di confortare, rassicurare, pat-pattare, non ho voglia di parlare. E men che meno ho voglia di ascoltare, a meno che non abbiate da dirmi cose belle-belle che mi tirino su il morale. Datemi dell'egoista, non mi importa niente.

"Non lasciatemi sola" però, perchè sola mi ci sento, e molto. La mia è una di quelle situazioni in cui pare quasi che non ti sia dato il permesso di star male. Sembra assurdo, ma le frasi che più mi sono sentita dire da quei pochi a cui ho detto quello che sto per affrontare, sono state "tanto sei già in menopausa indotta, che differenza c'è?", "tanto un figlio ce l'hai già", "tanto non ti serve più", "tanto lo hai preso in tempo", "tanto hai passato di peggio", "tanto c'è chi sta peggio", "tanto sei una donna forte". Come dire, che problema ti fai? Fa male, sapete. Fa molto male. Sono le risposte che fanno sentire sola, ma sola nell'intimo. Per ognuna di queste frasi ho le mie risposte pronte a chiudere le bocche, ma non voglio. Perchè non mi farebbe sentire meglio. Rimane il senso di vuoto, di non essere compresa, di essere trattata come l'ultima stupida che dà troppa importanza a una scemenza. La scemenza dell'ennesimo pezzo di corpo che se ne va, ma di cui si può tranquillamente fare a meno senza tante storie, e chi se ne importa se sei giovane, tanto non sei la prima nè l'ultima che se ne priva.
Quello di cui ho bisogno non è l'approvazione altrui. Non me ne faccio nulla. Ho la mia, mi basta. Che tutti pronti a dire "aaah al posto tuo farei lo stesso", ma 1- al posto mio non ci sei, e 2- dì la verità, lo hai detto senza pensarci un nanosecondo. (A un uomo ho detto "pensa se ti tagliassero le palle", la reazione non ve la dico, usate la fantasia). Non ho nemmeno bisogno di consigli: ho dei medici eccellenti a cui far riferimento. Quello che voglio, ed è la cosa più difficile, è non essere lasciata sola. Non di essere capita, ma di sentirmi tenuta per mano, di sentirmi voluta bene, che si accetti il mio muso lungo senza fare domande e senza pretendere che sorrida a tutti i costi a comando (che ammettetelo, e parlo anche per me eh, il più delle volte si cerca di rallegrare gli altri perchè la tristezza altrui fa male a chi la guarda, non per altruismo), accolta anche in questo momento un po' così, che per me, adesso, è un po' difficile. Di sentirmi dire che è normale che io mi senta come mi sento, ma non per modo di dire, non perchè non si ha altro da dire, non per minimizzare, non per sdrammatizzare.

Insomma, aspetto. E spero almeno che durante la convalescenza ci siano delle belle giornate di sole, perchè così, ne sono sicura, sarà tutto più facile.

martedì 16 febbraio 2016

Di nuovo in strada, di nuovo in sala operatoria.

La prendo larga?
Larga la prendo. Anche perchè è più di un mese che non sbloggo, quindi una lettura pesa ve la posso anche infliggere.
Sono qui.
Di nuovo in viaggio, non più in bici (fa freddo, odio pedalare col freddo) ma con la Greta, e faccio strada. Tanta. Ho ritrovato la libertà di guidare, il piacere di farlo, e vado. Dove non sono stata in questi ultimi dieci anni, da chi non vedo da tanto tempo e mi aspetta. Da sola. Mi piace guidare da sola. Tante cose mi piace farle da sola.
E vado anche metaforicamente.

Non ho più scritto di come sono andati i controlli ultimi. Si, lo so, nessuno ha perso il sonno per questo.
C'è che non sono finiti. Dopo quattro mesi non sono ancora terminati.

Tecnicamente e molto freddamente.
Quando ho portato la mamma a visita oncologica lo scorso ottobre, l'oncolessa mi ha suggerito, vista la situazione di entrambe, di parlare con l'oncologo che segue me, relativamente alla possibilità di fare il test del BRCA, e prendere eventualmente in considerazione l'asportazione preventiva delle ovaie (mie, non di mia madre chiaramente, dato che il mio era un tumore ormonodipendente e il suo no).
Un mese dopo, quando a visita sono andata io, ne ho parlato appunto con l'oncologo, il quale sostiene che fare il test, vista la famigliarità altissima per tumori di vario genere (soprattutto uteri e prostate) presenti in famiglia in entrambi i rami (non sto ad elencarli perchè è un "di più", ma ci sono passati tutti tutti tutti da mia madre e mio padre in su fino ai nonni, tutti e quattro, ad arrivare a me prima di mia madre) sarebbe tempo sprecato e denaro (per lo Stato) buttato. Non serve un test genetico a confermare la mia predisposizione. La sua positività non cambierebbe la mia situazione di una virgola, la sua negatività non diminuirebbe il mio livello di rischio. E mi sono ammalata giovane. Non è un punto a mio favore.
Se fino a due mesi fa mi si poneva almeno il dubbio "etico" (mutilarsi per un "se forse...", confondere la persona con la malattia...una moda... paturnie che passavano per la testa più che la paura, perchè paura concretamente, giuro, non ne avevo), la biopsia dell'endometrio ritirata poco dopo Natale ha tolto ogni dubbio.
Iperplasia endometriale. Endometrio disfunzionale. La causa: molto probabilmente la terapia ormonale (raramente, mi hanno detto, ma succede. Che fortuna.), come visti i precedenti in famiglia c'è una possibilità che anche no. La probabilità che si trasformi in neoplasia è alta. Le soluzioni, due: o controlli serratissimi con ecografia interna ogni tre mesi e isteroscopia con biopsia ogni sei fino a "quando", che potrebbe essere due mesi, sei anni, dieci settimane, domani, nel 2026, vai a sapere dato che di terapia ormonale mi aspettano ulteriori cinque anni... Oppure isterectomia ed ovariectomia.
E io mi dispiace, fancool alla morale, alla questione etica, a tutto quello che si vuole, una vita col fiato sul collo anche per quello non la reggo, e ho deciso per il taglio.
Ieri sono stata a visita ginecologica, dopodomani ho il day hospital preoperatorio, entro tre o massimo quattro settimane il pensiero è tolto. E tolto il Decapeptyl, perchè il Letrozolo rimane.
Veloce, rapido, senza liste di attesa chilometriche. Disponibilità pressochè immediata. Che cool. Meglio di una clinica a pagamento.

Quella era la parte tecnica.
La parte emotiva... Eh. Non so nemmeno da dove iniziare.
Non ho voluto scriverne prima di adesso perchè volevo una data, e volevo metabolizzare. Premetto che so che c'è chi sta peggio, ma questo non mi toglie l'onere di pensarci nè la sofferenza. So anche che ho passato di peggio, ma avrei voluto che fosse finita lì, e finita non è. Cinque mesi fa circa, una persona a cui tenevo molto mi disse che il tumore mi aveva pur portato una cosa buona, ed era il rapporto tra me e questa persona. Che poi dopo un soffio questa mi abbia causato una sofferenza evitabile, non raccontabile e profondissima che mi trascino fino ad oggi è un altro lato della faccenda, ma di fatto finora più che "portarmi" mi sembra che il tumore al seno abbia "rubato". E ruba femminilità nel senso fisiologico del termine. E ruba sicurezze. Ruba pezzi di me, dal mezzo seno al pezzo di braccio che non sento più da sei anni, ai miei organi più intimi. Anche dopo sei anni. No bono. Per niente.

Figli... L'idea del secondo figlio l'ho ingoiata a fatica in questi cinque anni. Ma non mi ci voglio dilungare, questa cosa la tengo per me. E' una cosa troppo personale e troppo grande per riversarla qui. Ci sono troppi luoghi comuni pronti ad arrivare come frecce, e non ho la forza nè la voglia di ricacciarli ai mittenti. C'è il Power. E' la mia fortuna. Ho ancora tanto da dargli.

Ho cercato in internet, in queste settimane, esperienze raccontate da donne che hanno avuto o hanno la mia stessa situazione. A parte che giovani come me (43 anni) le ho trovate col contagocce, ma ho letto cose abominevoli sul modo in cui considerano loro stesse una donna senza più organi riproduttivi. Donne non più donne, donne inutili, donne non più in grado di interessare un uomo, brutte, senza più desideri, finite. Cioè, ma stiamo scherzando? Va bene che attorno a questa parte del corpo ruota tutta una serie di discorsi fatti tra donne in sordina, di pubblicità mirate dalle quali qualcuna dice di sentirsi esclusa con rammarico, di ricordi di ragazzina, di nonne e zie che "mi raccomando adesso non saltare più con la corda", eccetera eccetera. Sarà per come sono stata educata, mia madre ha fatto il sessantotto, ma no, abbiate pazienza, mi rifiuto di prendere in considerazione l'idea di essere "femmina" solo in virtù del fatto che porto un organo cavo che il maschio non ha. Ci ho provato a pensare a come sarò "dopo", e francamente io mi ci vedo come oggi, nè più nè meno. Dovrò digerirla, certo, non sarà come togliere un dente, ma passato il periodo "down" (e me lo aspetto) mi rimane il resto. E il resto è la riflessione che sto facendo, e che mi fa dire a me stessa tutta una serie di motivi per cui non posso essere meno femminile di quanto non lo sia oggi.
Che io mi sento donna perchè ragiono da donna, mi vesto da donna, mi muovo da donna, mi trucco da donna. Ho le paturnie da donna, i sensi di colpa da mamma, i peccati di gola da femmina, i desideri da donna, le fisse da donna, la fiducia mal riposta che dà spesso ogni donna e prendo le tuonate da donna, e come ogni donna non riesco a liquidarne il dolore con un "chi se ne frega". Amo da donna, spero da donna, dedico l'anima come quasi ogni donna, mi faccio mille scrupoli da donna, ho i rimpianti e i rimorsi di una donna, mi guardo dentro mille volte al giorno come una donna, vorrei fare mille cose in un colpo solo e riesco a farne almeno quattro alla volta (e chiedete ad un maschio di farne anche solo due, tipo parlare al telefono mentre mescolano la minestra, poi vedete), ho i capricci di una donna, dico "si" per dire "no" e viceversa quando fa comodo come ogni donna, mi illudo che gli uomini capiscano una direttiva facile come "compra due banane" e sistematicamente mi incavolo perchè per farlo devono telefonare tre volte dal super per avere delucidazioni, mi sale l'ansia per cose evitabili, divento una leonessa quando mi si tocca il pargolo. Leggo, scrivo, osservo, curo, asciugo lacrime, raccolgo vomiti senza senso di schifo, tampono sangue e  incerotto, racconto balle a fin di bene, nascondo caramelle nel mio armadio (girelle di liquirizia e caramelle alla panna del Lidl per non farmele fregare, non ditelo a nessuno, men che meno alla mia bilancia), chiacchiero, ricamo e uncinetto, coccolo, inciampo, cado, mi rialzo, piango in silenzio. E non mi annoio mai.

Tutte queste cose non sono nell'utero. Non ci possono stare. Ho letto le sue dimensioni sul referto di ieri: senza le ovaie, atrofico che è per via della cura, meno di sette centimetri per quattro, per uno spessore di boh. Piccino per farci entrare tutto quello che sono in testa e cuore, direi.

Man mano che scrivo, ed è un'ora e mezzo che sono qui eh, mi rendo conto che sto buttando giù questi concetti ancora una volta per me e per me sola. Per rileggerli e rileggerli e mandar via il magone che ho dentro. Non è bello quando ritiri una biopsia e vuole consegnartela il primario, è la seconda volta che mi succede, e non è una pheegata. Dopo la prima volta, anche per poco ti senti la spina dorsale attraversata da una scossa di corrente veloce, e ti si rizzano in testa le antenne che non hai. Ti dicono di star tranquilla e tu vorresti mandare a ranare tutti quanti, avere solo le risposte che chiedi, poche chiacchiere. E vorresti avere otto paia di orecchi per captare anche il rumore del volo del moscerino che attraversa la stanza facendosi i fatti suoi, per paura di perdere un solo minuscolo particolare che ti riguarda e dover uscire anche con una sola infima domandina, come la taglia del camicino aperto dietro che ti daranno. No, per dire.
Perchè la verità è che ho paura.
In sala operatoria ci sono entrata tante volte, c'è un chirurgo in particolare che ogni volta che mi vede girare per gli ambulatori (e ci incrociamo quasi sempre, guardacaso... è il medico che mi ha portato in oncologia per la prima volta, perchè non sapevo dove andare con l'impegnativa in mano) mi dice "ma lei è ancora qui?" e io gli rispondo che ci vado per fargli perdere capelli. Infatti in questi anni si è ben che stempiato. Ma non mi ci sono abituata mai. Ogni volta è la stessa paura. Ogni volta è la stessa attesa... delle gocce di EN che mi stordiscono quanto basta per non scendere dal lettino e fuggire all'ultimo momento, perchè subito dopo averle prese vado in bagno a infilare il camicino per l'operazione e non riesco a camminare dritta per tornare a stendermi trenta secondi dopo.
L'ultima volta è stata l'operazione per le due ernie al disco, nella Big City, 24 aprile 2012. L'esperienza con l'anestesia è stata angosciante. Mi sono sentita addormentare piano piano dal basso all'alto, prima i piedi, poi su, le ginocchia, il bacino... quando il torpore è arrivato ai polmoni e non mi sono più sentita muovere il torace sono entrata in panico, ho cercato di urlare e non ci riuscivo, ho biascicato "non respiro", l'infermiera dietro mi rassicurava che si, respiro, e poi il buio, ma piano piano, che cercavo irrazionalmente di contrastare con tutte le mie forze. Non lo auguro a nessuno. Non ho paura del sangue, non mi fanno schifo le cicatrici (se non mi hanno fatto schifo quelle del seno e me le medicavo da sola...), sopporto il catetere, non ho paura del dolore. Ho paura di quel momento lì. Mi angoscia l'attesa.

Se c'è un bisogno che sento adesso non è di essere rassicurata, nè quello di essere compatita, o paragonata alla Angelina Jolie come hanno fatto diversi medici, compreso il mio di base (posso dirlo? FINITELA, a me di quello che fanno gli altri del loro corpo non è di nessun aiuto, men che meno se è gente che finisce sui giornali). All'unica persona, poi, che si è pensata di dirmi "cosa vuoi che sia, roba da poco, fai presto e ti togli un pensiero..." ho risposto "vuoi farla tu al posto mio? Accomodati, fai presto e ti togli un pensiero", e ha chiuso la bocca. Perchè tutti sono eroi con la pelle degli altri.

L'unico desiderio che ho è di cose belle. Coccole, chiacchiere, biscotti, progetti, belle notizie, soprattutto belle notizie. Perchè io nel mio dolore non mi sto crogiolando. Ci soffro, ci rifletto, ci piango ogni tanto, ma sono ben decisa ad andare avanti, e il mondo non si deve certo fermare nè nascondere dietro ad un paravento per me. Non sto andando al macello. Non ne uscirò senza organi vitali, nè menomata. La mutilazione è intima, interiore più che fisica, ma per guarire quel tipo di mutilazione i mezzi ci sono e non sono nemmeno così eclatanti. Non c'è nemmeno un fattore estetico a cui rimediare, stavolta, a differenza di sei anni fa. Il buono per la ricostruzione gratis ce l'ho ancora, ma è lì, nell'etere, e chissà mai se e quando deciderò di usarlo. Per ora va bene così.
Mi passerà. Con calma o in fretta ma mi passerà. E' sempre passata. Certo, sono giovane, ma le mie nonne alla mia età avevano già fatto entrambe questa cosa, e come me avevano già figli. Una è morta decenni dopo, l'altra è ancora viva e sta bene, per me non sarà la fine del mondo. Io ho il Power.
Non ho il cancro, lo sto prevenendo, certo con mezzi drastici, ma questa è la sostanza. Questo mi chiede la vita adesso. Per potermi godere tutto ciò che viene dopo, con una paura in meno.

(Ps. adesso sono qui che leggo e rileggo tutto innumerevoli volte eh, forse forse quello che ha partorito la mia testa ed è uscito dalle dita rientra attraverso il cuore e me ne convinco. Respiro a fondo... uno... due... La prendo larga? Larga la prendo.)