Non so come mi sento. Da una parte accuso ancora stanchezza dalla chemio di martedì (ce l'ho fatta, analisi a posto, talmente a posto che udite udite, dopo DUE anni da neutropenica cronica ho rivisto finalmente sul foglio il vuoto accanto al valore dei globuli bianchi, niente <, da non crederci).
Dall'altra il calendario mi dice che oggi è l'8 febbraio. E niente, non riesco a passarci sopra come niente fosse. Saranno paranoie, non lo so. Certe cose mi si tatuano in testa a fuoco, non posso farci niente.
E poi oggi è proprio il decimo 8 febbraio.
La faccio patetica? Forse. Ma mentre inizio a scrivere è mezzogiorno. Dieci anni fa esatti, a mezzogiorno, mi trovavo per la prima volta in sala d'attesa del reparto di oncologia, con mio marito. Che manco sapevo fosse oncologia, volete ridere? Il reparto ha due ingressi: uno "ufficiale" che arriva da un pianerottolo anonimissimo sul quale c'è solo un vano scale ed un ascensore, nessun altro portone in quel pianerottolo se non quello con a fianco scritto "ONCOLOGIA"; l'altro, esattamente sul lato opposto del lungo corridoio del reparto, oltre il quale si prolunga un altro troncone di corridoio (al quale si accede dal vano scale principale dell'ospedale) pieno di porte e di ambulatori dediti a vari altri tipi di visite e specialisti, ingresso da cui teoricamente può transitare solo il personale sanitario. Sul quella porta che divide i due tronconi di corridoio non c'è nessuna indicazione se non un divieto di accesso (a cui nessuno fa mai caso perchè la porta è praticamente sempre aperta). Insomma, quel giorno sono entrata da lì perchè mi sono persa: tre giorni prima mi aveva contattata al telefono l'impiegata di radiologia dicendomi "può ritirare il referto del suo agoaspirato in ambulatorio di SENOLOGIA lunedì otto febbraio alle dodici". E vai a sapere dov'è "senologia" tu... Prima di allora avevo messo piede in quell'ospedale credo tre volte, e mai sono salita oltre il primo piano. Oncologia è al quarto. Non sapevo manco che esistesse un vano scale alternativo a quello principale io, perciò quello ho preso, e ho chiesto al primo medico che mi è capitato a tiro dove dovessi recarmi. Fu così gentile che mi ci accompagnò, e se lo ricorda ancora. Mi ha messo le mani addosso (professionalmente parlando eh!) diverse volte in seguito quel medico, che poi è un chirurgo.
Ecco, dopo due minuti mi trovavo in sala d'attesa di oncologia senza nemmeno saperlo, e vi dirò, anche in tutta tranquillità (apposta, mica sapevo dov'ero), perchè prontissima a sostenere un colloquio identico a quello di una quindicina di anni prima quando mi fu refertato un fibroadenoma al seno destro.
Quando sei giovane (e forse anche molto incosciente) a certe cose non ci pensi. E io per mia natura non ero una che pensava sempre al peggio in prima battuta, tutt'altro. Ricordo che al corso preparto le altre future mamme si scambiavano opinioni sull'opportunità di poter partorire in uno dei Big Hospitals della regione per il solo fatto che dispongono di un reparto di neonatologia, con quella che "non si sa mai", e io senza piegarmi un capello pensavo tra me e me sentendo questi discorsi "perchè cavolo dovrebbe andare male qualcosa poi...", e decisi di partorire in un piccolo ospedale più vicino a casa, sprovvisto di reparto di neonatologia, per pura comodità. Ecco, quella ero io fino a quel giorno. Fino a mezzogiorno di quell'8 febbraio del 2010.
Sto scrivendo qui. E' mezzogiorno e venti. Ero in ambulatorio davanti al primario, che manco questo sapevo, che fosse il primario. E l'infermiera. E la psicologa. E parlavano. E mi parlavano con gentilezza. E si scambiavano occhiate. E venivo visitata. E il mio referto stava lì, sulla scrivania quasi sgombra, perfettamente ordinata e pulita, referto che prima che mi venisse letto ha visto attorno a sè persone e giri di parole atti (ne ho avuto il sospetto in seguito, se non quasi la certezza) a farmi intuire da sola quello che riportava scritto. Tanto che a un certo punto, stufa di tanti preamboli che quindici anni prima non ci sono stati, tra visita e giri di parole e occhiate e domande sulle mie abitudini alimentari e sul mio parto e allattamento, l'ho buttata io fuori la mia impazienza: "Dottore, insomma, mi vuole dire cosa c'è scritto in quel foglio?". Sottotitolato in linguaggio del volgo: "CHE CAZZO STA SUCCEDENDO?".
Il resto è storia. Raccontata in parte qui, in parte nei miei diari cartacei, in parte condivisa con qualcuno, e il grosso tenuto per me.
Chissà perchè diamo tanta importanza ai numeri, a certi perlomeno. Quest'anno festeggio il mio ventesimo anniversario di matrimonio, il mio 48esimo compleanno, il 16esimo da mamma; ricordo il 17esimo dall'inizio della mia gravidanza, il 19esimo anno dal trasloco in questa casa, il 23esimo da che ho conosciuto mio marito, il 34esimo da quando si sono separati i miei genitori, il decimo da che è mancata la mia Gioiuta (la mia prima gatta, dalla quale il pensiero non si è ancora mai slegato), il 29esimo dalla morte del nonno, il 14esimo dall'apertura di questo blog, e tanti altri "esimi" che man mano che passano i giorni mi saltano alla mente. Sarà una psicosi anche questa, non lo so.
Questo "esimo" però mi scombussola. Vorrei smetterla di pensarci, ma è più forte di me. Non voglio fare bilanci di questi ultimi dieci anni, sono viva, è un totale a fine operazione che parla da solo, no? E poi a che servirebbe? Non riesco a crogiolarmi in quello che c'è stato, in quello che ho vissuto, perchè la malattia non è la mia persona, è solo parte di essa in mezzo a tutto il resto. Forse la malattia mi ha anche cambiata in un certo senso, a tratti in negativo, a tratti in positivo, ma non ho mai voglia di soffermarmici più di tanto: non ne ho voglia. Non serve a nulla. Ho l'avanti a cui pensare. CON la malattia.
CON nel senso che in questi ultimi due anni, visto che non posso liberarmene, ho deciso di usarla. Ho avuto un momento di rabbia stamattina, complice la debolezza post
infusione sicuramente, poi è passato perchè tanto, a ragion veduta, ci
sono cose della vita che non si possono cambiare nemmeno se si potesse
disporre della macchina del tempo, e la malattia - quella che non ci si
cerca - è una di queste. E volente o nolente, una volta digerita, una volta capito che il nostro modus vivendi deve cambiare come deve cambiare la nostra concezione di equilibrio (e accettare la sua perenne ma irreversibile instabilità, per quanto doloroso sia) sta a noi decidere cosa mettere dentro al calderone dove ci ha fatto precipitare.
Si, la mia malattia, il mio cancro, io lo uso. Nei social, nel sostegno e nella vicinanza a chi inizia, nell'ascolto, come ha fatto con me la cara Anna (no, non conoscete "questa" Anna, nessuna Anna blogger, tra chi mi legge qui sul blog questa "Anna" l'ha conosciuta solo e soltanto una persona) che in questi anni mi ha sempre dato forza col ricordo di lei, del suo modo di affrontarla. "Non puoi batterlo, fattelo amico" dice un vecchio detto. Prima di riammalarmi il mio desiderio più grande era fare la volontaria in un hospice. Mi ero attivata per prepararmi con corsi sulla comunicazione e sull'ascolto, ho preso informazioni. Pronta a fare un passo decisivo ed è arrivata la diagnosi di recidiva, e addio progetto. Ma nel mio chiedermi "e adesso che me ne faccio?" la risposta si è fatta strada da sè assieme alle occasioni.
Parlo. Parlo e scrivo.
Parlo della mia malattia, dico che è impossibile amarla, ma è possibile infilarci vita dentro.
Dico che oggi di tumore al seno muoiono sempre meno donne, perchè è la verità.
Dico che se a me sta andando così, col quarto stadio, con le metastasi, con l'aspettativa di vita ridotta e in mano ai farmaci e alla famosa botta di culo, non è vero che andrà così per tutte.
Dico che il panico dei primi tempi è la cosa più normale di questo mondo, che ci vogliono spesso anni per tornare a sorridere, ma che più spesso di quanto si creda si può.
Dico che nessuna donna che si ammala di tumore dovrebbe essere lasciata sola, ma va ascoltata, sostenuta, abbracciata. Soprattutto abbracciata.
No, soprattutto ascoltata.
Dieci anni di te, maledetto. I nostri primi dieci anni. Mi hai portato via tante cose. CI hai portato via tante cose, a me e a chi mi ama. Ma non ti lascio portarmi via tutto. Che a me stessa, al profondo di me, a quello che mi tiene a galla, rimango attaccata con le unghie e con i denti costi quello che costi.