martedì 26 dicembre 2017

E' in volo

-... e alle undici e zero sette ha fatto l'ultimo lungo respiro. Non c'era più.
- Ma il messaggio che mi hai mandato ieri sera è delle undici e pochi minuti!  Neanche il tempo di...
- Avvisarti è la prima cosa che ho fatto. Sapevo che eri sveglia con me, con noi. Poi ho aperto la finestra, e l'ho lasciato volare via.

E' stato in quel momento, ieri sera, al telefono, che sono diventata piccola come un granello di sabbia.
La sera di Natale.

domenica 24 dicembre 2017

Mentire

Ho scoperto di saper mentire bene. Tipo dire a una persona "ti capisco", in realtà non è assolutamente vero, ma questa mi crede. E no, non dico sempre bugie, ma in questa situazione non me la sono sentita di essere sincera.

Ho sempre pensato di non essere una grande buona amica, in realtà, per nessuno, per tanti motivi. "Lei" è convinta che io lo sia. Da sempre.
Per un buon periodo della nostra vita abbiamo condiviso un milione di cose: siamo coetanee, abbiamo un legame di sangue, abbiamo condiviso un anno di scuola superiore (poi "Lei" è stata bocciata ed è andata a lavorare in fabbrica, trent'anni fa si poteva, io continuai a studiare ancora un anno). Per un secondo periodo ci siamo divise: vite diverse, storie famigliari complicate, scelte che portano lontano, traslochi, crescita e cambiamenti. Ci siamo riavvicinate con il mio matrimonio.
"Lei" ed io, però, siamo profondamente diverse, anche se per i giri strani delle storie delle persone ci troviamo, a distanza di tempo, guardacaso, a condurre apparentemente quasi lo stesso tipo di esistenza: marito, un figlio, casa da gestire, genitori anziani da accudire a duecento metri da casa e suoceri anziani da guardare a una decina abbondante di chilometri. Il "quasi" comprende tutte le variabili possibili, ovviamente. Soprattutto quella del carattere. A circa novanta chilometri di distanza una dall'altra: riusciamo materialmente ad incontrarci un paio di volte l'anno, ma ci sentiamo quasi quotidianamente.

"Lei" è fondamentalmente timida. Non di quelle timide che non hanno il coraggio di affrontare le cose della vita che si presentano, ma di quelle timide diffidenti che non si aprono con nessuno. Quel tipo di timida che non trova facilmente il modo per esprimere quello che pensa, le poche volte in cui ci riesce arrossisce come le donnine di una volta, e fa una tenerezza infinita. Io no, se voglio parlare parlo anche con le orecchie, e se decido di non parlare con qualcuno è perchè o non ho niente da dire, o perchè non lo ritengo necessario. "Lei" è di quelle timide che è facilissimo far sorridere e ridere, mia nonna ci riusciva perfino a comando per schernirla, e quando sorridono e ridono ruotano su loro stesse di novanta gradi perchè si emozionano, ma farle smettere è difficile. Io sono una musona che ride quando ha un motivo valido per ridere, e anche quando sono contenta non è automatico leggermelo in viso, perchè ho un viso fatto così. O forse ho solo antipatia per la mia brutta bocca dalle labbra sottili, dai denti storti e dal morso completamente sfasato, il contorno delle labbra indeciso e il mento pronunciato, e per lo più quando rido cerco di non farmi vedere la bocca e abbasso o giro la testa di istinto.

Abbiamo trascorso insieme l'adolescenza. Insieme abbiamo fatto l'abbonamento a "Dolly", insieme abbiamo iniziato a frequentare il gruppo di amici, insieme abbiamo imparato a metterci la matita nera sugli occhi di nascosto dalle nostre madri e facendo memorabili figure da panda; insieme abbiamo acquistato le nostre prime gonne corte, il primo rossetto color glicine macroperlato che negli anni ottanta se non l'avevi eri sfigata (e stava da schifo a tutte e due: a me per le labbra indefinite, a lei per le labbra molto carnose che ha. Ma poi, c'era qualcuno a cui stava bene quella ciofeca?), il primo costume sgambato, il primo deodorante spray, il primo reggiseno taglia I, i primi orecchini a cerchio che con i miei lobi ben aderenti al collo facevano stare i cerchi a mo' di attrezzo da domatore di leoni del circo (e insieme siamo andate anche a farcele forare, le orecchie), le prime scarpe con quelle zeppe di gomma dura che ti spaccavano le articolazioni delle dita dei piedi ad ogni passo e facevano vesciche da un metro quadro solo provandole in negozio. Insieme abbiamo imparato a cucirci le spalle imbottite da sole sulle camicie bianche, sui giubbini di jeans e sulle maglie di felpa a collo alto.
Quando avevamo quattordici anni eravamo compagne di banco in prima superiore; uno dei primi giorni di scuola nell'iniziare con una fatica enorme il suo compito di italiano, un tema ( il cui titolo era "Parlo della mia migliore amica"), dopo aver scritto la prima sudata frase (in italiano non ha mai portato a casa una sufficienza, ma ci ha sempre provato con un impegno non da poco) attirò la mia attenzione con una mezza gomitata a testa bassa. Alzai il naso dal mio foglio e la guardai di sbiego, lei alzò di sbiego il suo foglio e con un labiale ampio, sorridente e ben scandito mi disse "GGG-UUUU-AAAA-RRRR-DDD-AAAA". Aveva scritto "La mia migliore amica è mia (grado di parentela) Mamigà".
Mi sentii un verme. Sul mio tema non avevo deciso di parlare di lei, ma di un'altra persona (che se penso adesso alla persona che allora ritenevo la mia migliore amica mi vengono i brividi. Mica che sia cattiva eh, anzi, è una delle persone che godono della mia massima stima e grande affetto, ma non la considero certo un'amica, però allora la pensavo così) e non avevo il coraggio di dirglielo. Che poi se ci ripenso non ero certo obbligata a farlo, ma nei suoi occhi il punto interrogativo si leggeva come una scritta al neon. Finsi uno starnuto, la professoressa guardò verso di noi e io ripresi a scrivere sperando che "Lei" dalla soggezione non mi guardasse più almeno fino al termine delle due ore in corso. Brutta cosa l'imbarazzo a quattordici anni. L'imbarazzo dei quaranta ha tutto un altro peso, per questo certi ricordi di adolescenza non te li levi dalla testa neanche con l'ipnosi penso.
A distanza di trent'anni il rapporto tra me e lei non è cambiato di molto. C'è stata, appunto, la fetta di vita durata una quindicina di anni in cui ci siamo separate, ma da quando ci siamo riunite il nostro modo di comunicare è tornato quello di una volta.
Quale?
Il suo, quello di raccontarmi ogni virgola di quello che fa.
Il mio, quello di raccontarle solo la fetta di quello che faccio che può generare un discorso e non un monologo.
Il suo, l'ascolto affettuoso.
Il mio, l'ascolto affettuoso.
Che lei, mamma e casalinga per scelta e traguardo a cui aspirava fin da quando ha iniziato a parlare (per il modo in cui è stata educata, boh... mia madre e sua madre sono state due madri dalle idee educative diametralmente opposte) parla di sua figlia, di sua figlia, di sua figlia e di sua figlia. Talvolta anche di sua figlia. E io vorrei davvero parlare del miliardo di altre cose che mi passano per la testa, delle tante cose che mi interessano, che faccio e che vorrei fare oltre ad essere mamma visto che mio figlio ormai è grande e grosso e quasi quattordicenne (la sua ha nove anni), ma ogni volta che cerco di spostare il dialogo su qualcosa che non sia sua figlia, o occasionalmente mio figlio (perchè a onor del vero si, mi chiede spesso come sta dai) , dopo pochi secondi o cerca di dirottare il discorso di nuovo su sua figlia (perchè è l'unico argomento su cui ha qualcosa da dire) o mi ascolta in silenzio. Non sto esagerando. E' esattamente così.  Obiettivamente sarò anche fatta male, ma credo che la parola "dialogo" comprenda qualcosa di più vasto.
E' noiosa. C'è poco da fare. Non era noiosa quando avevamo quattordici anni e parlava solo del fidanzato che le sarebbe piaciuto avere e non aveva, dei figli che avrebbe voluto avere, e dell'ultimo numero di "Dolly" uscito, perchè a quattordici anni, figli futuri a parte, io non avevo molte altre cose per la testa. Ma è noiosa adesso. O meglio, IO la trovo noiosa. E non glie l'ho mai detto, non l'ho mai ritenuto necessario, ascoltarla non mi costa niente, e poi se lei è felice e si sente realizzata così, pace. A me non cambia l'esistenza.

Chiamatemi ipocrita. Sono una grande, grandissima ipocrita, perchè non ho mai avuto la sincerità o le palle necessarie per staccarmela di dosso, mi direte.

E invece no. Sapete perchè?
Perchè "Lei" è capace di un grande, grandissimo affetto. E me lo riversa addosso a modo suo. Perchè lei non condivide il mio continuo cercare soddisfazione nella vita anche al di fuori dai miei doveri di madre e di moglie, me lo ha fatto capire tante volte, ma mi ascolta in silenzio perchè sa che per me è importante, e non dice nulla perchè realmente il mio mondo è così diverso dal suo piccolo universo che lei stessa non ha nulla da dire. Io non amo fare monologhi, mi piacciono le conversazioni che siano scambi di idee, informazioni, esperienze sui fronti più disparati, se poi in un certo senso mi proiettano in avanti mi gratificano da matti, per questo con lei mi annoio, e le sue conversazioni monotematiche per me in certe giornate sono pesanti.  Ma alla fine, appunto, ascoltarla che mi costa? Probabilmente quando cerco di chiacchierare di cose non riguardanti la mammitudine, io annoio lei. Ma quando lei mi dice "Ti voglio bene Mamiga, se hai bisogno di me sai che puoi chiamarmi quando vuoi come io faccio con te, sai?" so che è sincera.  Quel "Ti voglio bene" dichiarato già nero su bianco sul compito di italiano, e mai dimenticato. Non sono molte le persone che dicono "Ti voglio bene" senza ritrattarlo al primo cambio di vento. E non sono molte le persone che, nonostante non condividano il tuo modus vivendi, lo accettano senza giudicarlo nè fartelo pesare perchè tu per loro sei comunque importante.

Ed è per questo che in queste ultime settimane le sto mentendo alla grande.

Tre settimane fa le è caduta sulla testa una tegola grossa e pesante quanto un ballatoio di granito. Indirettamente i pezzi della tegola si sono incastrati anche tra le pieghe della pelle di tutta la nostra famiglia.
A suo padre è stata data la peggior sentenza oncologica che si possa ricevere: tumore al pancreas metastatizzato. Speranze: zero. Conto alla rovescia: meno di un mese da allora. Cacchio, nemmeno il tempo di riuscire a pronunciare la parola "metastasi" senza fermarsi a metà dall'orrore. E siamo a venti giorni. Facile da scrivere adesso, impossibile da pronunciare con la bocca tre settimane fa. E sono tre settimane che cerco di iniziare questo post, riuscendoci solo stanotte.  Perchè si, perchè non sapevo da dove iniziare, perchè so che ci sono un paio di persone che leggono che sanno di chi sto parlando e non dovevano sapere prima che lo sapesse chi di diritto (mica per una fissa mia, sia chiaro, ma per desiderio suo), perchè di certe cose come si fa a scrivere quando non si ha ancora metabolizzato quello che sta succedendo?
"Lei" mi chiama e mi uozzappa ogni giorno. La distanza è troppa per fare un salto tra la campanella di inizio e quella della fine della scuola, e in mezzo ci sta tutto il tempo possibile accanto al suo papà e la gestione materiale di tutta la situazione (lei ha una madre fisicamente molto limitata da varie patologie soprattutto scheletriche, e suo fratello lavora e fa quel che può). "Lei" si sfoga, piange, domanda. "Lei" ha voluto che le spiegassi com'è fatto un ambulatorio oncologico prima di portarci il padre, perchè per lei "pediatra" è un termine che usa con la stessa familiarità con cui prende una forchetta dal cassetto in cucina, ma "oncologo" era una parola immensa ma vuota, una enorme incognita che incuteva soggezione, come il lupo mannaro per un bambino, e si era fatta l'idea che in un ambulatorio oncologico ci fosse chissà quale odore, oggetto, ambientazione. "Lei" mi ha chiesto cos'è un catetere, come è fatta una pompa per la morfina, se è facile fare una iniezione sottocute, perchè non vuole fare la figura dell'ignorante quando arriva il medico per la domiciliare a suo padre a portarle queste cose. "Lei" ogni volta che cambia qualcosa, o che un medico le dice qualcosa, o ha occasione di riuscire a piangere, me lo dice, e mi chiede se è normale. Perchè "Lei" ripete spesso la frase "Tu ci stai passando da anni, tu puoi capirmi.".
E io le dico di si, e la lascio sfogare. E lei dopo un po' si calma. Riprende grinta. Riesce a ridere delle mie battute sceme.
E le dico di si sapendo di mentire, ma mentire forte. Ipocrita. Ipocritissima Mamiga. Perchè io ballonzolo con il cancro mio e di mia madre e tutto quello che c'è dentro a questa sfera maledetta dal duemiladieci, è vero. Ma io, signori miei, ho speranze più che fondate di uscirne in piedi di nuovo, giustificate dalle statistiche, sorrette dai mezzi a disposizione. Suo padre no. Perchè lei ha solo una vaga idea della differenza tra il mio cancro e quello di suo padre, lei è convinta che il grosso della differenza sta nel fatto che io sono sotto controllo da anni e lui no, per questo è stato preso tardi. Valle a spiegare che il tumore al pancreas è un assassino che anche a scovarlo presto, se hai il culo di scovarlo quando è ancora circoscritto lì, è peggio di una biscia impazzita. Io non so cosa vuol dire sentirsi dare una sentenza anzichè una diagnosi. So cos'è il terrore, ma non il terrore firmato dal medico. So cosa vuol dire reggere il pianto di una persona malata di cancro, non quello di una che morirà di cancro da lì a là. Anzi, si, l'ho provata quella sensazione dolorosa una volta, una volta soltanto, ma non ero coinvolta emotivamente come lo si è quando è da un genitore che ci si sta per separare. Posso dire di capirla? No. Ma lei è convinta di si, e glielo direste voi a una persona che vi si affida così ciecamente in un momento del genere, che ci state solo provando, a sorreggerla? Che state andando per tentativi? Che se i tentativi fatti di "chiamami anche di notte se vuoi", "avete tante persone che vi vogliono bene", "gli stai dando tutto l'amore che puoi", "non sei debole perchè piangi, non sentirti in colpa, il forte piange ma rimane e si tira su le maniche come te", se questi tentativi la reggono in piedi è solo per puro culo e non sono dettati dall'esperienza come lei crede? Io mi sto affidando solo al mio istinto, ma sono arrivata al punto da temere di dire la cosa sbagliata prima o poi, e di finire spedita a quel paese. Però finora questo non è successo.

E poi c'è l'altro lato di questa vicenda che non deve sapere mai. Quando è iniziata stavo ancora aspettando il mio istologico definitivo. Vivere la pesantezza di questi mesi e accollarmi anche parte della sua. Lei non si è posta il problema "Mamigà potrà o non potrà?", è partita in quarta, e Mamigà inizialmente ha avuto un rifiuto interiore incredibile, una lotta mostruosa tra l'affetto per lei e l'istinto di proteggersi, senza trovare alla fine nessuna forma di compromesso. Mi sono sentita travolta, quasi trascinata, e prima di riuscire a fare mente locale e trovare il giusto posto per lei nei miei pensieri e nelle mie giornate, sono passata attraverso qualche notte quasi insonne ed incubi. E un picco di attacchi d'ansia aggiuntivi di cui ora non ho certo bisogno.
Poi, la decisione. Fredda e calcolata, forse, ma mi ha permesso di arrivare a stasera più serenamente.
Ho deciso che non posso salvare nessuno in questo momento: sto lottando per la mia vita, non sto curando una carie. Ho deciso che non posso essere empatica h24 con chi lotta più di me, o in sala operatoria non ci torno (a proposito, l'ultimo intervento ho dovuto rinviarlo, ho l'influenza).  Ho deciso che dentro di me ci devono essere spazi e tempi definiti e distinti per questa cosa. Ho deciso di mettere dei paletti.

Fino a stasera.
E' la sera della vigilia di Natale. Poche ore fa suo padre è stato indotto farmacologicamente in un torpore dal quale non si sveglierà mai più. Stasera sono anche i miei, di ricordi, che riaffiorano. I ricordi di quest'uomo che in circostanze particolari tanti e tanti anni fa ha fatto per me moltissimo, in silenzio. Avrei dovuto andare a cantare stanotte, ma la musica, la mia amata musica, da ieri mi dà fastidio, stride nella mia testa come le unghie sulla lavagna, e non ci andrò. Stasera "Lei" lo veglia, aspettando l'inevitabile, e le ho promesso che avrei vegliato con lei da lontano, perchè in qualsiasi momento "Lei" si sentisse crollare io nel modo in cui posso ci voglio essere. Perchè "Lei" dice "tu puoi capirmi", e questa sarà la notte peggiore della sua vita.





giovedì 7 dicembre 2017

Ventidue più ventidue

Ieri pomeriggio il braccio operato mi faceva un male cane. Avevo messo in conto di passare le ore pomeridiane in cucina e a stirare due cose (si, da qualche giorno ho anche ricominciato a stirare), ma ho dovuto cedere e star ferma. Se Dio o chi per lui ci ha fatto con due braccia un motivo evidentemente c'è, e se uno è totalmente fuori uso, fai poco.
C'è che ieri mattina c'era un sole meraviglioso sopra il paese congelato: mi sentivo talmente in forze e talmente di buon umore che verso le nove ho preso, mi sono truccata e pettinata, sono salita in macchina dopo aver chiuso casa, e gasatissima  dopo il traguardo dei 12+12 di venerdì mi sono fatta i "22+22". Vialetto --->Centro Commerciale--->Vialetto. Non solo. Ho contribuito a far girare l'economia con i miei primi (e penso unici per quest'anno) acquisti natalizi e non. Ho preso sette paia di calzini nuovi per il Power misura 43-46, una sciarpa per il Gatto Alfa (che il Power mi aveva chiesto di comprare al posto suo per fare il suo regalo natalizio al padre), una matita per gli occhi color cioccolato/borgogna in supermegafotonicaofferta (un euro e 89, cifrona, non potevo lasciarla nel cesto, mi chiamava "prendimi, un colore come questo non ce l'hai!", l'ho usata oggi per la prima volta come base per un ombretto molto simile, stupenda), tre rotoli di carta da regalo, sei biglietti di auguri, due libri per bambini, tre reggiseni senza ferretti/imbottiture/sagomature per il mese prossimo quando toglierò (si spera, perchè viste le arie è meglio dirlo a bassa voce) l'imbragadura medievale, e un caffè al bar. Il miglior caffè macchiato che abbia preso negli ultimi due mesi. Ho sempre sostenuto che uno degli ingredienti fondamentali che rendono un caffè buono è la compagnia, questo caffè è stata una eccezione.
Perchè si. Perchè c'era un gran caos di gente nei vari negozi, e io odio il caos, soprattutto il caos natalizio, le code alle casse, la gente che si lamenta per la lentezza delle cassiere, la calca davanti agli scaffali del Lego, la riga di mariti annoiati tutti identici tra loro in capo alle corsie in attesa delle mogli, i tipi degli stand del mercatino all'interno dei corridoi del centro commerciale che ti agganciano ogni due passi  sventolandoti addosso il loro volantino pubblicitario"signora, ha mai provato la crema alla bava di lumaca?";  ma da questo caos sono uscita solo ed esclusivamente perchè si avvicinava mezzogiorno, e se all'una meno cinque devo essere a scuola a ritirare il Power dopo aver perlomeno imbastito a spanne un pasto da ultimare dopo averlo riportato a casa, 22 chilometri con relativo traffico di quella fascia oraria devo iniziare a mezzogiorno almeno a percorrerli. Ma c'era il sole, camminavo bene, respiravo bene, sapevo cosa volevo acquistare e non avevo nessun impedimento a farlo, nessun fastidio, nessun intrigo, nessun dolore, nessuna ansia, solo l'accortezza di tenere la borsa sulla spalla destra (una scemenza, ma non automatica dopo quarant'anni che la porto sulla sinistra). Tre ore su e giù dall'auto, avanti e indietro tra i vari stabili, tra i vari ingressi, in completa autonomia. La normalità che tempo fa chiamavo "noia".
Come cambia l'aspetto delle cose, quando le si guarda con un diverso paio di occhiali.

Cappero se mi faceva male il braccio ieri pomeriggio. Mi dava fastidio perfino la manica del maglione di pile che lo avvolgeva. C'è stato un momento, durato una mezz'ora, in cui mi sentivo addirittura l'espansore nuovamente conficcato sullo sterno come appena messo (da quando lo hanno iniziato a gonfiare si è lievemente sollevato su quel punto, non sta più poggiato a piatto, dandomi ormai da giorni molto meno fastidio): devono essere stati i muscoli risentiti dalla resistenza alle vibrazioni durante la guida. Un dolore... Ho preso i miei antinfiammatori e pace.

Ma mi è sembrato di respirare come se fosse la prima volta dopo un'eternità.

sabato 2 dicembre 2017

Dentro e fuori, dentro e fuori...

...dalla sala operatoria.
Giovedì pomeriggio mi hanno chiamato per il ritiro dell'istologico. Sono andata in palla per ore, perchè ero convinta che me lo avrebbe consegnato l'oncologo, e invece no: ero attesa dal chirurgo senologo che mi ha operato. Mi sono fatta un milione di paranoie, perchè l'ultima volta che il senologo ha consegnato a mia madre il referto al posto dell'oncologo è stato per dirle che sarebbe tornata in sala operatoria di lì a pochi giorni per un nuovo intervento. Ne ho parlato in un gruppo, l'unico gruppo FB in tema a cui mi sono iscritta poche settimane fa (e solo e soltanto perchè le partecipanti hanno o hanno avuto il tumore al seno prima dei 45 anni, io ho le mie idee sui gruppi FB, ma non è questo il contesto in cui sciorinarle), e tutte coloro che mi hanno risposto mi hanno confermato che ora la prassi è questa: il referto lo consegna il chirurgo, in oncologia pare si passi solo in seguito, a differenza di quanto ho sperimentato sette anni fa (quando appunto la visita post intervento la feci con l'oncologo, contestualmente alla consegna del piano delle cure che mancavano da fare). Me ne sono fatta una ragione, mi sono rasserenata, e ieri mi sono recata a visita da sola.

Per sentirmi dire quello che non avrei voluto: che appunto tornerò in sala operatoria entro il 20 dicembre. Sembra che la massa tumorale fosse ancorata al derma, hanno trovato cellule maligne invisibili all'occhio troppo vicine al margine di resezione, che va quindi ampliato di qualcosa. Dei millemila linfonodi tolti, il sentinella e soltanto quello era metastatico. Il medico mi ha detto che la prognosi non cambia, non cambia nemmeno il piano terapeutico da affrontare, va solo rinviato di qualche settimana per permettere la cicatrizzazione della nuova sutura. Di positivo c'è che questo nuovo intervento avverrà in day surgery, in anestesia locale, in parziale sedazione. Ancora più positivo, e ho voluto accertarmene per i miei nervi, saranno presenti in sala operatoria assieme al chirurgo plastico del Big Hospital (che non ha la mia simpatia per un milione di ragioni che non ho ancora elencato) i due chirurghi senologi che mi stanno seguendo alternandosi, di cui a pelle ho sempre sentito di potermi fidare, e dalla infinita pazienza. Mi mettono a mio agio. E non è un aspetto trascurabile della menata.

Non avevo una Bestia Bis. Avevo (od ho?) una MER... di Bestia Bis.

Non ho paura. Sono solo avvilita per le tempistiche che si allungano, per la chemio e il riempimento dell'espansore che si rimandano, per l'aggiungersi di volta in volta di crisi d'ansia. Mi dispiace da morire il non riuscire a dedicare le energie a quello che vorrei, in queste settimane che di solito erano piene di pensieri rivolti al Natale e a tutto quello che organizzavo tra il pranzo in famiglia e i pensieri da consegnare alle persone  care. Faccio di tutto per concentrarmi sull'idea che tra un anno, se tutto va come deve, riavrò la mia vita come era prima e forse meglio di prima, con i miei capelli in testa, un seno nuovo di pacca che non risentirà mai della forza di gravità col passare degli anni come il gemello, con le forze ritrovate e con la mia banale quotidianità di cui giuro che non mi lamenterò più. Mi sto quasi beando all'idea che avevo messo in preventivo di fare il Natale in sordina nel non sapere come avrei reagito alla chemio (perchè anche se l'ho già fatta, non è detto che la storia si ripeta in maniera identica), mentre ora so che riuscirò a distinguere il gusto dei tortellini da quello del panettone (dato che la chemioterapia mi aveva azzerato per mesi totalmente la percezione di qualsiasi gusto).
Magra consolazione? Forse. Ma ho bisogno di attaccarmi anche a queste cose. Ho bisogno di attaccarmi all'idea dell'albero di Natale che farò la prossima settimana con l'aiuto di mio figlio, di come lo voglio e del milione di luci e di addobbi a forma di cuore che voglio che abbia, roba che "Vaticano spostati, il mio deve vedersi fino a Lignano Beach". E a tante altre piccolezze che mi aiutano con successo a non farmi travolgere da pensieri inutili e fuori tempo.

Ah, ho anche ricominciato finalmente a guidare per distanze superiori ai quattro km (tanto sono riuscita a fare la prima volta dopo più di un mese per andare in farmacia, qualche giorno fa). Ieri sono andata a visita da sola: dodici chilometri più dodici in scioltezza. Ho sentito solo un po' di fastidio tra la spalla e il gomito, nella parte sotto, nel governare il volante mentre il braccio destro  usava il cambio o nel fare la retromarcia (che io non so fare guardando gli specchietti, ma solo torcendo il busto). Ma per il resto non ho avuto problemi. E questa ritrovata autonomia mi ha restituito una buona dose di sicurezza e di fiducia.






martedì 28 novembre 2017

Di attese e di passettini

Stamattina mi sono occupata di casa mia. Che fino a un mese e mezzo fa era una cosa normale, ma in questi giorni è una conquista. Come cambiano le prospettive dalle quali si vedono le cose dopo i cambiamenti, eh? Ho cambiato perfino età in questi giorni, signore e signori da lunedì scorso sono una 45enne, ho modificato or ora anche la pippa sotto al mio avatar, che del fatto che invecchio si deve sapere eccome, perchè ne vado orgogliosa ;-)
Mio marito oggi torna al lavoro dopo un mese di assenza, ha potuto usufruire di questo periodo di licenza straordinaria giustificato dai miei certificati medici: tra tutti i disagi che comporta il suo lavoro almeno questa possibilità esiste, e ne ha approfittato. Per fortuna, perchè la mia ripresa è più lenta di quello che pensavo. Il braccio sinistro non collabora a pieno col destro, alzare la brocca piena d'acqua a tavola è uno sforzo che ancora non riesco a fargli fare, figuriamoci alzare una pentola per fare la pasta, stirare zero, fare la spesa manco per sogno, di guidare ancora non se ne parla se non per andare a scuola a prendere il Power quando diluvia (un chilometro andare e uno tornare). Il dolore la fa ancora da padrone dopo ogni sforzo anche lieve. Però pian piano ogni giorno faccio progressi aiutata dagli esercizi assegnatimi dal fisioterapista, miglioramenti lievissimi che però noto bene, e mi fanno pensare positivo. Ogni piccola incombenza si rivela una sfida davanti alla quale non mi tiro indietro, e sto riconquistando i miei spazi e il mio lavoro in casa poco alla volta con grande gioia dei miei uomini, che mi vedono migliorare in salute ed in umore; vedono migliorare anche la qualità dei pasti in tavola, perchè lo dico forte e senza falsa modestia: la cucina della mamma cambia totalmente anche il tono con cui ci si siede a tavola. E ne vado fiera. In seguito i miei uomini si litigano l'onere del lavaggio piatti (non ho la lavastoviglie), ma li lascio fare senza nemmeno un filo di senso di colpa. Non ho la vocazione della casalinga-martire.

Sull'altro fronte ancora nessuna nuova. L'istologico non è ancora arrivato, ho chiamato oggi in dipartimento, mi hanno detto che un mese di attesa è considerato un tempo normale. Sarà. Non che abbia fretta di sedermi di nuovo in poltrona al quarto piano, non spasimo dalla gioia, ma ho questa fissa che prima si riparte e prima si finisce. Cerco anche di non pensarci più di tanto, perchè la chemio non mi spaventa, ma mi avvilisce ricordarmi come ci vivevo dentro sette anni fa, con tutte le limitazioni che impone e gli imprevisti dietro l'angolo. Si ha poco da dire che non va sempre allo stesso modo, la chemioterapia è uno schifo, da qualunque lato la si guardi. Basta pensare al principio con cui funziona, uccidere cellule maligne e sane in blocco. Come diceva mia nonna quando minacciava con la ciabatta: "chi ciapo ciapo e no vardo in muso nissuni!". Così cerco di concentrarmi sul giorno in corso e prendere tutto quello che offre.
La scorsa settimana, martedì,  mi sono decisa a tagliare i capelli. Sono passata da un lungo "metà schiena" a un caschetto appena sotto le orecchie. Un trauma. Lo so che il capello lungo non va di moda, so anche che alla mia età invecchia, ma faccio parte di quella fetta di donne che quando si guarda allo specchio l'unica cosa che le importa è vedere qualcosa che piace a lei, e a me la mia cascata di capelli neri piaceva tanto. Erano la mia conquista. Erano i miei sette anni di rinascita, mi facevano sentire femminile, e ci ero attaccatissima, come una bambina, una bambina molto vanitosa. Mi ricordavano che era andato tutto bene, con lo stesso meccanismo con cui l'odore del sugo di pomodoro mi riporta all'immagine di mio nonno che lo preparava con una cura maniacale dopo che era andato in pensione, o il gusto dello yogurt all'albicocca mi riporta ai pochi ma vivi ricordi che ho della scuola materna (probabilmente ce lo davano spesso come merenda, chissà), e il suono delle campane alle domeniche di sole a far vasche in fondamenta dei Vetrai con la mia amica Ale (che ormai è più sposata e più mamma di me da boh, sicuramente le nozze d'argento le ha già fatte). Chiunque ho incontrato in questi giorni non ha fatto altro che complimentarsi per il nuovo taglio perchè svecchia, perchè è più moderno, perchè qui e perchè là. Non lo so se sia la verità o un lodevole tentativo di tirarmi su il morale, ma io allo specchio ora vedo solo il passaggio verso lo zero, verso "quello" zero e soprattutto ciò che porta con sè. Non con angoscia, che sia chiaro. Solo con un po' di tristezza e di rassegnazione. Ma è un passaggio da affrontare, e non mi tirerò indietro. Ci mancherebbe altro.
Due settimane fa ho anche iniziato il gonfiaggio periodico dell'espansore. Avevo addosso ancora l'ultimo drenaggio, tolto due giorni dopo. Finora ho fatto due infusioni. Convivo con sto "coso", non so come chiamarlo, con questo corpo estraneo a cui cerco di non far caso, ma che ad ogni movimento un po' brusco o un po' importante si fa sentire. Fa senso. Ieri ho fatto una ricerca su Google immagini per vedere come è fatto un espansore, perchè ok, io ho chiesto ai medici perchè sento queste differenze della parte al tatto (una parte dura e una molle del... seno? Non è un seno, è una patata, letteralmente ha la forma di una patata e l'aspetto esterno è quello di una patata smagliata, rigata e punteggiata) e loro oltre al "signora, è tutto normale" non dicono altro. Così ho cercato la faccia del mio "coso", e l'ho trovato meno brutto di quanto pensavo. Ora mi spiego anche perchè la sensazione al tatto è quella che è, a seconda di dove metto le mani.
Già, metterci le mani. Non è stato facile la prima volta, la scorsa settimana, quando ho fatto la prima doccia. Non è facile adesso farlo due volte al giorno, quando devo mettere quei prodotti appositi sulla cicatrice e sulla pelle circostante, ed è una cosa che va fatta se non voglio trovarmi con piaghe inutili e ulteriori disagi quando il seno verrà ricostruito. Toccare quella cosa, massaggiarla con vigore nel modo in cui mi è stato spiegato dal chirurgo plastico, sentire sotto i polpastrelli una cosa che sembra gomma perchè è quasi rigida, e cosa più fastidiosa psicologicamente, totalmente insensibile. Dall'ascella allo sterno, una riga sul cuore, che trancia la cicatrice precedente, quella del quadrante del primo intervento. Quella il cui termine al centro è stato portato via assieme al capezzolo. Il mio mezzo torace letteralmente devastato. Lo faccio, e mentre lo faccio cerco di concentrarmi sull'aspetto della cura di me, del volermi bene, della temporaneità di questa situazione. In ospedale mi avevano consigliato di mettere dell'olio di mandorle sulla parte sotto e attorno alla cicatrice (perchè "sopra", appunto, va applicato uno speciale gel inodore e incolore), solo che io odio profondamente tutti i prodotti oleosi perchè ho la pelle che tende ad ingrassarsi come il pavimento di una friggitoria, una sensazione così fastidiosa da rendermi antipatico perfino l'odore dell'olio. Così in farmacia mi sono procurata un composto elasticizzante in crema (non prima di essermi consultata col medico), me ne hanno data una con un profumo fantastico, io ogni volta che abbasso lo sguardo sento la zaffata di questo profumo nel naso (perchè è bello persistente) e  il disagio è ridotto.

Sto cercando un modo meno pesante di accettare tutto quanto. Tutto qui.
In questo mese di riposo mi sono dedicata a qualcosa che probabilmente, in tempi "normali", non sarei riuscita a fare con tanta cura: ho preparato un po' di pensierini natalizi. Solitamente in questo periodo dell'anno dedicavo un po' di tempo a cercare i regalini da mandare agli affetti lontani, soprattutto a preparavo il solito paccone annuale da spedire alla fetta di famiglia rimasta a Venezia (regali di compleanno compresi, visto che in questo periodo ne cadono diversi) in cui inserivo anche i dolciumi da recapitare da parte di mia madre. Paccone che arrivava anche in direzione opposta, ovviamente. Quest'anno non posso farlo. Non ho nemmeno quella di attaccarmi ad Amazon, perchè sinceramente non ho proprio la testa per mettermi a scegliere. Però la passione l'ho messa e la sto mettendo in piccoli addobbi da regalare, e mi sto divertendo parecchio. E dirò di più: ho scoperto che usare una tecnica per me nuova di confezionare piccoli oggetti sta fungendo da anestetico. Due piccioni con una fava. Mi manca solo da acquistare le buste a bolle per le spedizioni, e poi via, sperando di far tutto prima di iniziare la chemio, che poi non so come va.
La scorsa settimana sono anche tornata a coro: partito il drenaggio, ripartita Mamiga. Sono stata riaccolta con un affetto che non mi sarei aspettata mai. Ho ricominciato letteralmente a respirare. Soprattutto perchè è il periodo dell'anno in cui si preparano le celebrazioni natalizie, io i canti di Natale li adoro, più di tutto adoro l'atmosfera che si crea quando tutte e quattro le voci intonano i canti tradizionali: mi sembra di perdermi in qualcosa di magico, fuori dal tempo, e a quel qualcosa di magico do il mio contributo, sentendomene inspiegabilmente avvolta.

Che oh, manca meno di un mese a Natale, mica secoli.






giovedì 9 novembre 2017

Ricostruire

Sono a casa da circa dieci giorni.
Mi hanno dimesso dopo sette giorni di degenza, con un drenaggio, ben fasciata, ingabbiata nel mio reggiseno post-operatorio, con un seno in meno e un milione di punti di domanda in più. Cioè, non è che non abbia chiesto al chirurgo che mi ha operato quello che mi passava per la testa di chiedere, ma una volta a casa, col passare dei giorni, mi sono resa conto di quante cose non mi sono state dette. E sono cose che penso che i medici sappiano fino ad un certo punto.
La degenza è stata lunga. Più lunga di quanto mi era stato prospettato. Ma va bene così, in fin dei conti una settimana non è un mese. Ero in una stanza singola, terzo piano, senza televisore (cioè, c'era, ma mancava il telecomando, "socializzato" da un paziente che in quella stanza ha soggiornato prima di me. Si, in ospedale succede anche questo. Ma tant'è, con lo smarfono e la connessione wi-fi gratuita del Little Hospital non mi è mancato il modo di svagarmi). Le finestre davano sul parcheggio retrostante l'edificio, e sulla stradina di accesso dal lato del prontosoccorso. In lontananza, nelle poche ore di cielo sereno di quella settimana, le montagne.
Non mi è pesata la solitudine. Ed è stata tanta, tantissima. Ho ricevuto tante visite, manco a dirlo mio marito era lì due volte al giorno quasi tutti i giorni, un po' meno spesso mio figlio, ho visto diverse amicizie, parte della famiglia, e tante, tantissime persone si sono fatte presenti via whatsapp. In pratica pur essendo sola avevo spesso la sensazione che la stanza fosse affollata. Non mi sono mai, mai sentita abbandinata un momento, fin dal mattino presto. Tenevo il telefono con la sola vibrazione accesa, ma bastava buttarci l'occhio in qualsiasi istante per sapere che qualcuno stava pensando a me. C'è sempre stato qualcuno che, sveglio evidentemente all'alba pure lui/lei, si premurava di mandarmi un "ehilà, non si sono ancora stufati di te? Dai che ti scarcerano presto!". Mi sono sentita circondata da affetto, portata in braccio, coccolata. Persino il mio coro mi ha mandato un pensiero, anzi due: uno che si tocca (un cuore imbottito in stile shabby che ho appeso all'ingresso di casa), e un piccolissimo video di saluto collettivo girato durante una delle prove, che mi ha fatto scendere i lacrimoni. La gratitudine mi ha gonfiato il cuore.

Eppure ho apprezzato molto le ore di silenzio. Quelle ore interminabili in cui semiseduta o semisdraiata nel letto fissavo fuori dalla finestra il cielo, perchè lasciavo costantemente di giorno le veneziane alzate, spesso contando gli uccelli che passavano a dividere a metà il quadro. Quelle ore interminabili di notte, quando gli unici rumori arrivavano dalla guardiola delle infermiere diversi metri più in là, rumori ovattati. Si sa com'è un reparto di degenza durante la notte. Una notte è stata più movimentata delle altre perchè è sopraggiunta una paziente spedita dal prontosoccorso, giusto nella stanza antistante la mia. Per il resto, silenzio. E ne avevo bisogno.
In quel silenzio mi sono lasciata andare ai pensieri peggiori, al pianto soffocato trattenuto da settimane, al senso di smarrimento, alle crisi di ansia, alle domande, ai sensi di colpa. Alla preghiera. Anche a quella.
E poi pian piano alla consapevolezza che un passo è stato fatto, che in fin dei conti la Tac è andata bene altrimenti non mi avrebbero operato, che la convalescenza sarebbe stata una opportunità per mettere mano ore ed ore a un milione di progetti natalizi che solitamente gli anni scorsi dovevo ridurre per mancanza di tempo.
Mi sono guardata indietro, ho visto tutte le energie che ho sprecato in particolare in questi due ultimi anni nel soffrire amaramente per qualcosa che non merita più un'ora della mia attenzione. Mi sono data della sciocca, ma mi sono anche perdonata, perchè ci sono stati d'animo e pulsioni che non sempre si possono controllare, non sempre si scelgono, l'unica cosa è dare loro lo spazio che chiedono, finchè la loro strada non si compie. E subito dopo mi sono sentita più leggera, e ho ricominciato a fare piccoli progetti. Sarà una banalità, ma avere progetti cambia eccome il modo con cui si vive il tempo. Progetti piccoli, appunto, perchè adesso devo vedermela con la malattia, con il percorso lungo che è solo all'inizio, ma progetti. Sciocchezze. Ma che mi strappano un sorriso ogni volta che ci penso.
Il silenzio, in quella settimana, è stato come un percorso lungo un sentiero. 

Ora sono a casa, appunto. Teoricamente a riposo. Praticamente trovo sempre qualcosa da fare anche da seduta, perchè sono così e basta. I cerotti legano, l'espansore preme, le ferite non sono ancora chiuse, da ieri la pelle evidentemente si sta asciugando e ad ogni movimento sento sta cosa dentro che si muove e si adatta. E' una sensazione stranissima. Sono imbragata in questo reggiseno che non è un reggiseno, ma uno strumento di tortura diurno e notturno, che io ho sempre avuto la passione per tutto quello che è la moda dell'otttocento, ma inizio a ricredermi sul fatto che le povere donne ottocentesche fossero così liete di portare cose del genere per tutta la vita. Il drenaggio dà giù ancora molto, non credo che me ne libererò tanto presto, ma in ospedale mi hanno insegnato a cambiarlo da sola e mi hanno lasciato una piccola scorta di bussolotti nel caso perdessero il vuoto prima della medicazione successiva (vado in ambulatorio due volte a settimana), ormai sto facendo talmente amicizia con la mia borsina che penso che anche dopo tolto il tubo me la porterò dietro vuota per giorni, per forza di inerzia. Il passo successivo, dicono, è la neuro :-D
Il braccio mi dà ai nervi. I primi giorni ho fatto la fighetta e ho messo in atto la fisioterapia non nella dose consigliata, ma il triplo. "Cacchio vuoi che sia, due o tre volte per esercizio lo fanno le vecchiette che hanno paura di sentir male, mica io". Appunto. Da tre giorni ho un dolore al nervo dall'ascella al gomito che mi impedisce di alzare il braccio tenendolo dritto. Non va su. Non risponde se non a metà. Non riesco a tenere alzato nemmeno un bicchiere pieno d'acqua o a grattarmi la testa. E sta cosa mi urta e spesso mi avvilisce. Due giorni fa una febbre alta, dolori atroci alle parti operate e una nausea da manuale mi hanno messo in crisi d'ansia, placata dal chirurgo (ferite a posto, signora) e dal mio medico di base (virus intestinale in giro, normale che le parti più deboli risentano di più, prenda questo e quello e in 48 ore starà meglio).

Durante la medicazione di martedì (oggi è giovedì) non sono stata coperta con garze bianche prima del cerotto trasparente. Mi è stato applicato solo il secondo.
Così, una volta tornata a casa, ho affrontato per la prima volta il mio corpo nuovo.
Ci avevo provato durante la prima medicazione dopo l'intervento, la dottoressa che mi medicava mi ha detto prima di togliere le fasciature che non sarebbe stato opportuno che vedessi così presto, io ho voluto fare l'eroina e con la coda dell'occhio ho visto una cosa che mi ha ribaltato l'anima. Piansi, e mi ripromisi di non guardarmi mai più. Fantasie di una appena scesa dal cavallo della morfina (che viaggiiiiiii!!!).
Insomma, mi sono guardata due giorni fa. Non è lo scempio che pensavo. Le cicatrici si stanno asciugando, c'è un cordone di punti che non si riescono nemmeno a contare.
Non ho più un seno. Ho un sacchetto informe.
Non ho più un seno, e non lo riavrò mai più. Avrò qualcosa che gli assomiglia, tra qualche tempo. Ma non riesco a dispiacermene al punto da rimpiangere quello che ho fatto. Guardo quella cosa che è adesso, e mi chiedo se non fosse stato meglio se non me lo avessero rimosso direttamente sette anni fa, invece di rattoppare. C'è che il futuro, questo futuro, non poteva prevederlo nessuno, e sono convinta che per me è stato fatto quanto di meglio si poteva fare finora. Penso a quello che c'era, alla malattia che lo ha coinvolto due volte e che per due volte mi ha stravolto l'esistenza, ma anche al tempo in cui mi ha permesso di allattare mio figlio e farlo crescere sano come un cinghialotto, e penso che alla fine questo dono grande va a compensare la sofferenza che mi sta causando. Ho avuto questa fortuna. C'è chi non potrà dirlo mai.
Non ho più un seno, ma il chirurgo che mi ha dimesso mi ha assicurato che la tac del prericovero è negativa, perciò non ho più nemmeno la malattia. Passati i fastidi e le tante limitazioni fisiche di queste settimane, rimane solo da ricostruire. Ricostruire la libertà dal cancro con la chemioterapia, ricostruire un petto che mi faccia sentire a mio agio, ricostruire la mia immagine dopo la chemio, ricostruire la vita. E ci vorrà tutta la fatica di cui sarò capace.

Ma se l'ho già fatto una volta, posso farlo di nuovo.







giovedì 26 ottobre 2017

Pezzetti

E poi arriva la botta.
Arriva di notte, quando non riesci a dormire perché nelle ultime 48 ore tra anestesia e morfina hai totalizzato un numero di ore da incosciente superiore a quello da lucida. O sarà il letto dell' ospedale. O i rumori di sottofondo a cui non sei abituata, la mancanza del respiro di chi ami vicino e del pelo caldo dei mici addosso. O la combinazione di tutte queste cose.
Arriva la botta, e piangi.
Ti dicono che è andato tutto bene.
Ma non va bene niente, perché ti senti fatta a pezzetti dentro e fuori.

domenica 22 ottobre 2017

Cambiamenti

Non vogliatemene se non ho risposto ai commenti che mi avete lasciato al post precedente. Io vi ringrazio tantissimo.
Non riesco a rileggerlo.
Giovedì ho fatto il prericovero, e venerdì mattina la scintigrafia ossea.
Ero nel bunker. Mi hanno iniettato il mezzo di contrasto, mi sono accomodata nella sala d'attesa dotata di tv (sintonizzata su un canale, non ricordo quale, che trasmetteva un programma sul referendum di oggi in Veneto - sono veneta, ma in quel momento fregagnente di chiunque) e di scorta d'acqua, in pace col mondo sapendo di dover attendere le mie buone due ore prima di passare sotto lo scanner. Mi ero portata un libriccino di parole crociate, qualcosa da leggere, un lavoretto da portare avanti ad uncinetto, tutto perchè il telefono là sotto non prende, quindi largo ai vecchi sistemi per passare il tempo.
Dopo una decina di minuti entra lei. L'operatrice del Little Hospital che accompagna nel Big Hospital i pazienti ricoverati a fare quello che nel primo non è possibile fare. Accompagnava un uomo a fare una scinti. La morsa allo stomaco: era la stessa donna che ha accompagnato me e una mia compagna di percorso sette anni fa a fare lo stesso esame per il linfonodo sentinella. Vedere lei, e sentire contemporaneamente altri due pazienti iniziare a parlare dei loro mali, mi ha provocato un tremore che non sono più riuscita a frenare per il resto del tempo. Ho cercato di contenermi, di farmi piccola, di sparire sul fondo della sedia per non farmi vedere. Il desiderio fisico di fuggire di lì. La consapevolezza di non poterlo fare senza assumermi la responsabilità di quello che sarebbero state le conseguenze: non sapere. Il forte desiderio di vomitare. La ricerca affannosa di tutte le mie coperte di Linus: ripetere a memoria la mia parte da contralto di un canto di Natale, ricordare la sensazione del muso di Amy che si strofina sul mio, e due e venti e cinquanta passaggi destra-sinistra-destra-dai che con l'EMDR ho sempre trovato il filo di pace necessario per superare il picco di crisi. Mi ha rilassato sentirmi chiamare dal tecnico abbondantemente prima delle due ore previste, sdraiarmi sul lettino, dai che ci siamo, lo scanner fa il suo lavoro. Dai che ce la faccio. Di nuovo.

Questo mi sta facendo la Bestia Bis. Non riesco più a sentir parlare di male. Perfino del mio. Men che meno di quello degli altri, e dire che ascoltare mi è sempre venuto congeniale, raccogliere sfoghi e richieste ha sempre fatto scattare dentro di me una molla piena di vita e di disponibilità sincera. Sarà la sindrome della crocerossina, che ne so. Oggi non è più così. Mi si rivoltano le viscere. E' un malessere proprio fisico. Oggi ha chiamato mia suocera per dirmi due cose, sentivo il suocero in fondo alla stanza che le suggeriva con insistenza di dirmi che aveva male qui e là per via di due infiltrazioni ai polsi fatti sabato, io per la prima volta in vita mia le ho detto con ben poca educazione di dirgli di finirla di frignare (le ho proprio detto "ma che la smetta, si guardi un po' di televisione e gli passa", lei mi ha risposto "che vuoi farci, porta pazienza, vuole che ti tenga informata e vuole che tu sappia che non può venire al telefono", e io di rimando istintivamente "eeeeeeh va ben, lo sappiamo tutti che ha i suoi dolori" ) che dovevamo parlare del ragù che lei aveva preparato per i miei uomini e non sapeva come porzionare. Posata la cornetta mi sono vergognata da-mo-ri-re: in vent'anni non mi era mai successo prima, di mancare loro di rispetto in questo modo. Confidenza ne ho sempre avuta, ma non oltre certi limiti. Mi sono morsa la lingua. C'è che quando ho iniziato a sentire "dille che il dottore mi ha detto di non muovere le mani" in sottofondo ho sentito un bisogno incontrollabile di vomitare.
Ho avuto un conato di vomito quando due giorni fa la mamma mi ha accennato ad un problema di pressione alta di una delle zie.
Ho chiuso bruscamente una conversazione via watsapp con la cuggggina con cui ci si sente praticamente tutti i giorni, quando ha iniziato a lamentarsi di un improvviso raffreddore che l'ha costretta a ricorrere all'aerosol. Stavo nella saletta d'attesa per la TAC. E no, per quanto io la critichi spesso dentro di me per questo suo modo di ingigantire in maniera teatrale ogni più piccolo fastidio che le capita, le ho sempre dato corda prima d'ora perchè ad essere gentili non ci si perde mai. 

Il mio intervento è stato anticipato a martedì 24, dopodomani. C'era posto, e mi hanno inserito in lista. Forse è meglio così, togliamoci di dosso sta Bestia e forse se ne va anche la morsa allo stomaco. Nell'ultima settimana ho perso un chilo. Oggi è domenica, il Gatto Alfa è ai seggi e chissà a che ora di domattina tornerà, io e il Power abbiamo passato la giornata un po' da soli giocando a giochi da tavolo e un po' dalla nonna. La pace domestica che spesso ho giudicato "noiosa" oggi vorrei che non finisse mai.
Ieri la mamma ha parlato alla nonna. Ora lo sa anche il resto della famiglia. Due cugine si sono fatte subito presenti con messaggi di affetto. Domani chiamo la nonna, voglio sentire la sua voce, lei che ne ha passate un milione (quattro tumori compresi) e sta ancora qui a canzonare la vita col suo sarcasmo che, nonostante spesso sia stato difficile da tollerare per chi le sta vicino, adesso mi tira stranamente su. Sapere che la mia malattia non è più un segreto, è come sapere che posso chiedere "aiutatemi a stare in piedi". 

Non doveva andare così. Sette anni fa a quest'ora avevo già tirato fuori le palle. Ero io che rassicuravo. Ero io che ci scherzavo sopra. Ero io che cercavo contatti con persone già passate attraverso questa strada per avere rassicurazioni, informazioni, scambio, crescita, forza. Quando ho avuto la diagnosi, due settimane fa, sono uscita dall'ambulatorio bella carica pensando "sono stata una donna cazzuta quella volta, me lo hanno detto tutti, vuol dire che POSSO, che le unghie le ho, è ora di tirar fuori quello che ho imparato".
Stavolta c'è il rifiuto del mio e di quello degli altri. Non so perchè, ma è così, è come se si fosse verificato in me un cambiamento improvviso, violento e radicale, e l'unica opzione che mi sembra accettabile ora è prenderne atto e dargli lo spazio che chiede senza sentirmene in colpa.
Stavolta l'ansia la fa da padrona, la certezza che o la affronto in piedi o finisco sdraiata è uno schiaffo a mano aperta che mi sveglia ogni mattina, e quella sottile malcelata richiesta " tu che sei forte aiutami a tollerare la tua sofferenza perchè sto male per te" che mi arriva da più fronti mi rimbomba nell'anima come qualcosa di inaccettabile.


martedì 17 ottobre 2017

Lo sfogo - la Bestia Bis

La visita oncologica c'è stata. Alla Bestia è stato dato un nome. Il percorso è stato programmato, anche se i dettagli vanno aggiustati via via.
La Bestia, stavolta, è brutta. Si, ok, trovatemi voi le Bestie belle, tra quel tipo di Bestie. C'è che quella che ho avuto sette anni fa, in confronto, era un agnellino. Mai avrei pensato di poterlo dire.
Questo è un triplo negativo. Subdolo. Stronzo. La Bestia Bis. Uscito dal nulla così, aggratisse. Che nelle ultime settimane mi sono spaccata il sistema nervoso dai sensi di colpa, perchè ho saltato tante, TANTE pastiglie di terapia ormonale in sette anni, ma cacchio, ho fatto CINQUE anni di Decapeptyl, quando i protocolli standard ne vogliono due, tre al massimo. Ho anche tolto le ovaie assieme all'utero, che l'utero se n'è andato per la displasia all'endometrio, ma le ovaie erano sane, e ho accettato di farle togliere solo per prudenza, per prevenzione di una recidiva. E invece no, arriva questo, che dal finestrino che si è aperto in me mi fa cenno con la manona e mi dice con voce canzonante "del mio collega ti eri ben che liberata, eri proprio guarita di lui, ma io con lui non ho proprio niente a che fare, quindi togliti i sensi di colpa, perchè la tua è solo una grandissima botta di spheega". Che consolazione.

Mi aspetta, stavolta, la mastectomia radicale. E' già stata fissata per il 31ottobre. Mi ricostruiranno il seno. Nel mezzo, TAC e scintigrafia ossea, perchè se non c'è il terrore delle metastasi non ci accontentiamo mica.
E poi... Chi col triplo negativo si è già scontrata, sa che arriva il resto. Non ci si scampa. Non c'è altra arma, e che sant' Onco ce la mandi buona.
La chemio.
Cazzo, la chemio. Che quando ho realizzato la cosa, nella mia solitudine, mi sono lasciata andare ad una crisi isterica da vergognarmi di me. Ma se c'è una decisione che sto maturando in questi giorni è proprio quella di portare rispetto prima per il mio sentire, poi eventualmente per quello degli altri, e allora si, lo dico, ho urlato, ho lasciato uscire tutto il mio rifiuto per quella porcheria, che hanno poco da dirti "pensa che ti salva la buccia", ma intanto te la devi pippare, ti devi di nuovo lasciar rivoltare i visceri e non solo quelli da lei, e trovatemela anche solo una,  UNA donna che lo fa volentieri come fa volentieri una manicure. Averne lo schifo più schifo è un mio diritto.

Passano i giorni. Mi sto attivando. Perchè il momento dello sconforto e della caduta nel vuoto passa, la paura di non farcela rimane, la terra trema ancora sotto ai piedi, ma c'è tanto da fare, e a guardare al passo che sto facendo man mano ho imparato sette anni fa, ed è ora e tempo di rientrare in quella mentalità. Questo ora la vita mi chiede.
Ho fatto acquisti. Pigiami, biancheria nuova, e due foulard. Non voglio cappelli stavolta. Quelli della menata precedente (vedi un po' la vita come va, a volte...) non li ho conservati: lo scorso giugno, in occasione della imbiancata (imbluata...) della camera matrimoniale ho preso la palla al balzo e ho svuotato gli armadi, eliminando un milione di cose che stavano prendendo polvere da anni e che sapevo non avrei più adoperato. Tra queste cose, i miei cappelli che usavo per coprire la pelata. Tutti eliminati, tranne uno o due che mi piacevano particolarmente e che ho usato anche in seguito. Il resto... via. Ma penso che non li avrei rivoluti nemmeno sapendo a cosa sarei andata incontro ora, perchè non mi piacciono più. Ho un'altra età, un altro fisico, altri gusti, così ho deciso di cambiare. Intanto ne ho presi due. Un cappellino per stare in casa e basta. E orecchini vistosi per riempire quel vuoto odioso tra testa e collo che ti fa sembrare non solo malata, ma anche rassegnata. E no, rassegnata io proprio no, non a 44 anni, non con una famiglia da amare, non con un figlio da crescere. Dio, questi pensieri sto a fare... Si, cappero, io ci tengo. Datemi della donna senza spessore, pensate pure che i problemi durante la malattia sono altri, non mi importa. Ho bisogno di appigli per tenere su l'anima, ho fatto fatica a tornare ad avere un aspetto che mi piace dopo la malattia, è il mio appiglio e mi ci aggrappo con tutte le mie forze. Questo non mi preserva da tutto il resto, e sa il cielo quanto profondo sia l'abisso che riguarda quel "tutto il resto", ma mi aiuta a viverlo meglio. A guardarmi allo specchio e non vedere la malattia prima della donna, ma il contrario. E vedo tutorial su youtube creati da Donne come me che mi spiegano come annodare il tessuto, e anche come truccarsi. Appigli. Appigli per aggrapparsi alla vita. Appigli per cambiare il verso con cui guardarsi. Ho una malattia. Non sono LA malattia.

Un po' alla volta la gente intorno a me lo sta venendo a sapere. A qualcuno lo dico io, a qualcun altro l'ha detto mio marito. Qualcuno l'ha saputo da mia madre. E come sette anni fa, c'è chi si offre subito di aiutare in qualche modo, e chi sparisce.
Chiariamo. Non mi permetto di giudicare le reazioni di chiunque davanti a una cosa così abnorme. Ognuno ha il suo modo di porsi davanti a queste cose. Ma lo dico fuori dai denti: il silenzio che adotta la gente quando fuori la scusa "ho paura di disturbare" mi dà ai nervi. Ottima scusa per lavarsene le mani. Prendete in giro qualcun altro: se tacete, tacete perchè o non ve ne frega niente, o perchè avete paura, ma non di disturbare.  Sarà che io parto dal presupposto che un malato non si lascia solo. Sarà che so cosa vuol dire avere non una semplice paura, ma il terrore puro. Sarà che per me il vuoto è non solo una cosa che ti fa sprofondare, ma è umanamente inaccettabile. Ma non rende ciechi. Una telefonata non disturba. Un messaggio su whatsapp non disturba. Un gesto gentile non disturba. Dite "sto sulle mie perchè non sono in grado di aiutarti, di portare il tuo peso, perchè ne ho di abnormi da risolvere di mie, non ho tempo, mi si è scaricato il telefono, non sapevo della tua condizione, non so che fare, la malattia mi spaventa", ma se dite "ho paura di disturbare" è come se diceste "non contare su di me". Ed è una cosa che mi segno, e mollo. Non con astio, ma adesso ho bisogno di forza, non posso concentrarmi su altro.

Una persona di mia conoscenza, una cara amica, in lacrime mi ha chiesto quanto fossi arrabbiata. Si è meravigliata quando ho risposto che provo tanti sentimenti, fuorchè la rabbia.
Mi arrabbio quando qualcuno mi pesta i piedi, quando mi si dice una bugia, quando mi si fa un torto, quando mi si manca di rispetto, quando mi si usa violenza verbale, quando vengo presa per quello che so di non essere. Ma adesso con chi me la prendo? Con chi mi devo arrabbiare, con la vita? La stessa vita che mi ha dato anche tante cose buone? Cos'è, la prendo a insulti per cosa? L'ha fatto apposta? Che abbiamo tutti le nostre croci, e allora dovremmo essere tutti incazzati a morte con la vita? E cosa faccio, pesto i pugni? E poi? Risolvo cosa? No, la rabbia è l'ultima cosa oggi. C'è tanto di altro, ma la rabbia no. Quello che mi manca è un pianto. Non sono ancora riuscita a farlo. Ci ho provato. Al primo singulto mi si è bloccato il collo, è partita una stecca alla cervicale, e mi sono fermata. E con questo ho un groppo abominevole in corpo.

Proteggere. Mi viene chiesto di proteggere mio figlio dal dolore, e questo è un capitolo a parte su cui oggi non me la sento di soffermarmi. Mi viene chiesto di proteggere mio marito, perchè ha grossissimi problemi sul lavoro, e soffre da morire, che questa mia situazione lo ha sderenato ulteriormente. Metà della mia famiglia non lo deve sapere, perchè quella metà andrà a riferirlo dritto dritto alla nonna (è già successo per altre cose, no, non esagero nè sottovaluto), e non vogliamo che sappia. A 92 anni si ha tutto il diritto di vivere in pace. Soprattutto se non si può verificare di persona come stanno le cose, perchè la distanza è troppa.
Mi è stato chiesto di proteggere mia madre, perchè è già provata dalla sua recente recidiva. E vive sola, ed è fragile. E di non sfogarmi con i miei suoceri, perchè hanno i loro problemi.
Qualcuno giorni fa mi ha telefonato per sapere come stavo. Quando ho iniziato a raccontare quello a cui sto andando incontro, ha cercato di tagliare corto la telefonata.
Proteggi chi ti ama, fingiti positiva, ottimista, ridi, buttala in vacca, punta il faro sulle tette nuove che ti fai fare e facci le battute sopra, tralascia il dettaglio che ti senti devastare i nervi perchè ti mutileranno fuori e dentro. Di nuovo. E senza sapere se servirà a portare a casa la buccia intera, peraltro. Che oggi va di moda il malato propositivo, positivo, quello che mette la maschera da tigre e racconta di andare a fare la chemio come quando va a prendere l' Ostia in chiesa. Quello che si, sta male, ma non lo fa pesare a nessuno, perchè bisogna poter dire "che bravo". E ci si può riuscire, fidatevi. Ma cazzo, quanto costa. Perchè poi hai una facciata da tenere in piedi, e guai se per un momento ti lasci andare, perchè l'anima pia che ti ricorda che "tanto tu sei forte" arriva puntuale a farti sentire più debole, così, di un debole qualunque. E io, adesso, non ci riesco. Proteggo mio figlio. Proteggo me stessa. Per il resto del mondo, da oggi non ce n'è.

Proprio da oggi. Oggi ho fatto la visita chirurgica con il chirurgo plastico.
A causa della pregressa quadrantectomia, a causa della pregressa radioterapia, a causa della chemio che farò, a causa del blablabla, considerando questo e quello, è stato deciso che farò il percorso di ricostruzione con l'espansore. E sarà lungo. E tornerò in sala operatoria da qui a circa un anno. E su e giù per il Big Hospital ogni due o tre settimane. E un'altra minestra da digerire.

La ricostruzione è il minimo, mi hanno detto.
I capelli sono il minimo, mi ha detto la mia amica Se.
Dei capelli fregatene, ha ripetuto l'altra mia amica, la Ci.
Tanto è passeggero, mi ha detto la Cla.
Tra un anno ci ridiamo sopra, è arrivato dalla Fla.
Se bisogna passare l'inferno si passa l'inferno, ti dice chi "quell' inferno" l'ha solo sentito nominare e non ne ha mai assaggiata una goccia.
Tutto è il minimo. Tutto è passeggero. Tutto è facile, finchè la somma di tutti i minimi  non te la fai tu. Come quando sei nel pieno di una crisi di ansia e ti dicono "e allora calmati".
C'è che oggi ho deciso che da ora in avanti, finchè non sarà passato il violaceo del livido che ancora mi scotta sulla pelle del collo, mi proteggerò e dirò la verità.

Mi chiederanno come sto.
Risponderò che oggi sto di merda.




venerdì 6 ottobre 2017

Di nuovo nella bolla

Certi protocolli li conosco. E a volte essere ignoranti giova, ve lo giuro.

C'era la stessa dottoressa di sette anni fa a fare il prelievo.
C'era la stessa infermiera a tenermi la mano.
C'era lo stesso anatomopatologo.
E fin qui possono essere benissimo casi.

Ma come sette anni fa dopo il primo prelievo non sono stata più guardata negli occhi.
Come sette anni fa ne sono stati fatti altri due, sotto anestesia locale, con un ago molto più grosso contenente un piccolo bisturi. Non previsti.
Come sette anni fa la dottoressa che ha effettuato i prelievi ha dovuto forzare parecchio per farli, perchè la massa è non solo circondata da tessuto infiammato, ma piuttosto dura.
Come sette anni fa mi è stato detto che mi avrebbero fissato loro l'appuntamento dal senologo, dopo avermi consegnato il referto.

Ma come sette anni fa il referto non mi è stato consegnato in mano. Come sette anni fa, mi è stato fissato telefonicamente l'appuntamento per la diagnosi. Come sette anni fa, dopo quattro giorni. Come sette anni fa, di lunedì.

Ma ho già saputo. Ieri. Non serviva la telefonata. Non serviva nemmeno l'altra mia telefonata di conferma, ma ho voluto farla lo stesso. E ho saputo.
Perchè certi protocolli, quei protocolli, li conosco. Tre volte ci sono passata, tra me e mia madre. Questa è la quarta.  Chi non sa di cosa parlo ha poco da dirmi "eh... ma... magari no..." per tranquillizzarmi, non sono una bambina. Nemmeno una vecchia rimbambita. E dove si trova il reparto di oncologia non me lo devono indicare.
Ora mi manca solo da sapere il "come". Perchè il "quando" l'ho già saputo anche quello: alla svelta.

E' tornata la Bestia.

E forse, appena riesco ad uscire da questa ennesima bolla con la testa, recupererò un minimo di lucidità necessaria per essere obiettiva, realista, e meno impanicata.
Forse anche a fermare la testa e a ricominciare a mangiare. E a scrivere.

Ma ora sono sento solo la stanchezza e il vuoto.





lunedì 11 settembre 2017

Attese

Eccomi. Oggi inizia la scuola, stamattina me la prendo comoda e scrivo.
Riprendo da dove ho lasciato un mese fa. Non è mica finita.
E' un post un po' lungo e parecchio pesante, ma tant'è, la pagina è mia, scrivo per me, questo vi beccate se avete voglia di leggere.

Dunque. Tecnicamente.
L'oncologa mi ha visto, mi ha visitata bene, ha visionato i referti a disposizione, in mezz'ora di visita ha vagliato diverse ipotesi, "mastite si... mastite no... aspetti che parlo con la radiologia...". Mi ha messo sotto antibiotico per una settimana, con già fissato l'appuntamento per otto giorni dopo.
Bene, penso, vedrai che in una settimana me la sfilo via. Passata la paura.

Ma otto giorni dopo non è cambiato niente. Anzi. Il contrario.
Mi visita, stavolta, l'oncologo. Il lunedì seguente ho già fissato l'eco di controllo per l'altro seno, per il fibroadenoma trovato sei mesi fa, chiede che venga esaminato anche il seno sinistro, e mi dice di avvisare la radiologa perchè appena terminato l'esame vuole parlare con lei.
No, non è mastite, altrimenti avrebbe reagito alla cura farmacologica. Può essere altro. Può essere il granuloma vecchio che si è gonfiato (ma è poco probabile, visto che la "massa" non ha contorni definiti, così mi ha spiegato), può essere una ghiandola impazzita, può essere che avendo sospeso per un periodo la terapia ormonale gli estrogeni si siano sentiti autorizzati a fare un festino (ho scoperto quel giorno che gli estrogeni non dipendono esclusivamente dalle ovaie - che appunto non ho più - ,beata la mia ignoranza). Oppure, e stavolta me lo sono sentito dire dritto in viso, a differenza della volta scorsa, può esserci ripresa della malattia. E per saperlo c'è un solo mezzo.

Il lunedì successivo, cioè cinque giorni dopo, ho fatto l'eco. La radiologa con una mano fa l'esame, con l'altra parla al telefono con l'oncologo, e gli spiega quello che vede. L'oncologo scende subito. Mi viene rifatto l'esame. Lui, un punto di domanda alto un metro e ottanta con gli occhi sbarrati fissi sul monitor. Lei, un punto di domanda alto un po' meno, seduta davanti al monitor mentre smanetta. Io, un punto esclamativo che sul lettino non riesce a stare fermo, e inizia ad agitarsi nel vero senso della parola. Tremavo come una foglia, senza riuscire a controllarmi. Mi sono scusata, mi hanno chiesto se avessi freddo, e l'ho detto che no, non avevo freddo, ma ero nervosa come un gatto in mano al veterinario, e mi sono scusata di nuovo. E sono stata capita, perchè non me lo hanno fatto pesare. Nessuno dei due. Anzi, la radiologa mi ha sussurrato che sarebbe nervosa anche lei nel vedere i medici che si agitano.
La massa densa cresce settimana dopo settimana, prende circa mezzo seno (dei tre quarti rimasti di lui) o poco più, anche il seno destro dà segni di cambiamento di struttura. 

E quindi biopsia sia. Verrò bucherellata in più punti, con anestesia locale, martedì 26. E poi che sarà sarà.

Ho paura. Lo so, è scontato, banale, il minimo della pena, ma lo devo dire. Ho paura.
Non ho paura dell'esito, ho affrontato il peggio una volta, ho visto che non è impossibile, nessuno mi impedisce di affrontarlo, se serve, di nuovo.
Ho paura dei miei nervi. Ho paura dello stato d'ansia che mi ha reinvestito, ho il terrore di non essere suffcientemente salda su me stessa quanto basta per non farmi prendere dal panico. Per non riversare su mio figlio, già ansioso di suo, il mio stato d'animo.
Sono in mani competenti, fidate, serie, scrupolose, ma quando chiudo gli occhi sono sola con me stessa. Sento addosso la preoccupazione della mia famiglia, soprattutto di mio marito che ha dall'altra parte due genitori che gli stanno dando seri problemi legati essenzialmente all'età, e alla degenerazione di problemi non indifferenti, e che vanno seguiti per dovere e per immenso affetto. Mi dice che mi vuole bene, me lo ripete mille volte al giorno, quasi avesse paura che non arrivi a esserne sicura. Ma è terrorizzato. E questa cosa mi sgomenta più di quello che mi sta accadendo.

Sono terribili, le attese. Nelle attese si infila il tutto e il niente. Nella mia attesa ho ricominciato a ricamare, perchè il ricamo richiede attenzione più di altre attività da svolgere quando riposo, se sbaglio disfare è un macello, perciò mentre lavoro la testa deve rimanere lì e solo lì, non può viaggiare altrove. Mentre ricamo si allenta la morsa allo stomaco. Ognuno ha i suoi modi per scappare, di tanto in tanto, dalla realtà. E non è una cosa che trovo sbagliata. Da qui al 26, e dal 26 al giorno in cui saprò qualcosa, ho bisogno di vivere, non posso ficcare la testa sotto al cuscino. Ricamo, sforno pane, controllo compiti, gioco col telefono, chiacchiero via whatsapp, faccio i miei lavori di tutti i giorni in casa e fuori, ma non ho voglia di vedere nessuno. Per la prima volta da anni, apprezzo quelle conversazioni in cui l'altro ti parla delle millemila cose sue ma non usa tre secondi del suo tempo per ascoltare le tue. Perchè oggi delle mie non ho voglia di parlare con nessuno.
E' la sera, prima di addormentarmi, che l'angoscia sale. Spesso sto sveglia fino alle due, le tre del mattino, senza riuscire a lasciarmi andare. Ogni tanto scendo, mi attacco alla fattoria virtuale (ho ricominciato a giocare anche con quella, dopo secoli), foffo i gatti a rotazione (con o senza il loro consenso, tanto con cinque che ne ho si possono dare il turno, e almeno quattro di loro fortunatamente apprezzano), poi risalgo. E fisso il buio. Piano piano scivolo giù nel sonno, ma faccio solo brutti sogni. Sogno uomini incattiviti che vogliono entrarmi in casa a forza. Sogno mio figlio piccolo, lo prendo in braccio per difenderlo da gente che vuole fargli del male. Sogno traslochi impellenti, suppellettili che non entrano nelle scatole, il bagagliaio della mia auto da riempire di mobili e scatoloni di libri, l'angoscia nel non riuscire a calcolare se ci sta tutto dentro o no. Ho sognato mio nonno, morto venticinque anni fa, seduto sul pavimento della cucina dove si viveva al tempo, che rassegnato mi diceva dondolando la testa "lasciala fare (tua nonna), quando ha finito di fare i suoi lavori mi alzo, se mi alzo adesso me ne dice di tutti i colori". Ho il dono di ricordare sempre i sogni che faccio, e io lo chiamo "dono" perchè quando ne parlo la maggior parte delle persone mi dice che, invece, li ricorda difficilmente. Io no. E dei sogni che faccio mi rimane sempre qualcosa addosso ogni giorno, nel bene e nel male. Come se non smettessi mai guardarmi dentro. Come se non staccassi mai la presa dalla corrente.


Le attese sono la parte peggiore delle cose. Non ho vissuto serenamente nemmeno l'attesa del giorno del mio matrimonio, quasi diciotto anni fa ormai, benchè fosse un evento lieto, preoccupata che qualcosa andasse storto, sempre in termini di ansia. Figuriamoci il tipo di attesa che vivo ora. E me la devo mettere via, mi sto sforzando di accettare che non può essere diverso da così. E' inutile che mi si dica "vedrai che andrà bene", mi viene da rispondere che la sfera magica non l'ha nessuno, e che se  l'oncologo mi ha detto testuali parole "Non me la sento di tranquillizzarti" , lui che in sette anni e mezzo non l'ho sentito sbilanciarsi mai, non è certo la parola contraria di qualcun altro che mi allevia la tensione. Voglio che sia LUI a dirmi che va tutto bene. Io aspetto quello. Tutto il resto è fuffa.





venerdì 11 agosto 2017

Paure

Mi è crollata una certezza: io con la malattia non devo proprio averci fatto pace. O non ho proprio fatto pace con la paura.
Faccio una premessa: sono in piena fase di panico, perciò quello che scrivo oggi ha poco di razionale, ed è dettato dal mio unico e solo bisogno di sfogare tensione.

Faccio outing, e mi si dica pure che sono una grandissima incosciente, perchè fondamentalmente mi rassegno a pensare di esserlo davvero. Dopo tutto quello che ho passato sette anni fa, io prima di toccarmi il seno per autoesaminarlo (e so bene come si fa, ormai ho una palestra ben formata) devo avere un momento di coraggio folle, e qui lo dico e qui lo nego, non mi capita poi tanto spesso. Mi sento molto "struzzo", lo ammetto, e non do certo un bell' insegnamento. Ma io non vivo certo per fare la maestra agli altri, io ho i miei limiti e i miei terrori, e uno dei peggiori terrori della mia vita da sette anni a questa parte è il tunnel della paura della recidiva. Non LA recidiva, ma la paura di averne paura. Faccio i miei controlli semestrali come da protocollo, non faccio e non chiedo mezzo esame in più di quelli prescritti dall' oncologo di volta in volta (o ti fidi o non ti fidi, e se non ti fidi che cappero ci vai a fare? Sono pur guarita...), stop. Non ne parlo mai, non ne voglio parlare mai di mia iniziativa se non mi si chiede di farlo (e in quel caso lo faccio senza problemi, comunque, ma solo in quel caso), perchè nella vita "normale" che ho sempre rivoluto lo spazio per una malattia oncologica che oggettivamente non c'è non ce lo voglio far stare. E ok, non pensiamoci più.
Ma mi sto dicendo la verità o mi sto perculando da sola?
Illudiamoci che la mia fifa si mascheri da "tanto ho già dato", che la mia famiglia possa contare sui miei nervi saldi, già peraltro compromessi quotidianamente dagli effetti della menopausa (su cui stendo un velo pietoso). Concentriamoci sul fatto che la mamma ha avuto la sua recidiva dopo sei anni solo per botta di sphyga. Non diamo preoccupazioni più a nessuno, poi. Non sopporto quando i miei cari si preoccupano. Mi sento mortalmente in colpa. No, non è razionale. Ma io in quella cosa tutta code al CUP ed esami e buchi ed accertamenti e visite e attese e ipotesi e passate di scanner e carte che si accumulano e impegnative e referti da ritirare e date da incastrare e spiegazioni da dare e da chiedere e chilometri da fare e biopsie e stomaci chiusi dall'ansia e punti di domanda e ribaltamenti a calzino per ogni pelo incarnito non la voglio più. NON LA VOGLIO PIU'! Non la reggo! Ho dato per me, sto dando per mia madre, basta! Ho altro da fare! E guai al prossimo che mi ricorda che "eh, e per fortuna che ti controllano", si grazie che culo essere guardata a vista dagli oncologi (mica Baubau e Miciomicio) per il resto della vita dai 37 anni in poi, no?

Un mese fa circa, mettendo la solita crema corpo dopo la doccia (ho preso questa abitudine per finire un tubo enorme di crema agli agrumi presa senza tanta convinzione l'anno scorso con la scusa del decluttering selvaggio, e ho scoperto che la combinazione di quel profumo con quello della mia pelle mi piace da impazzire) arrivo al seno e sento il solito gonfiore sotto la cicatrice un po' più grosso del solito. Passo la mano sotto ed è un po' gonfio anche lì. Sul momento ho pensato che magari posso aver dormito messa male, o aver fatto un movimento stupido, poi in questo periodo vai dentro e fuori da certi supermercati dove entri lasciandoti alle spalle il Sahara per trovarti in Groenlandia e prendi certe tirate a nervi e muscoli... e boh, ho lasciato stare.
Dopo una settimana, una domenica sera, in quella che è una delle poche serate di pace sotto al gazebo di questa estate assurdamente torrida e ignobilmente pregna di zanzare, mentre uncinetto placida un modulo identico a decine di altri (sto declutterando... filo numero 12 bianco a pacchi che mi è stato regalato tempo fa) sento calore sul seno operato. Passo la mano. Scotta. Scosto il collo della maglietta, ma è roseo come sempre. Il calore è interno. Vado su, mi stendo, faccio l'autoesame, e scopro che è tutto un grumo duro fin sotto l'ascella. Ed è un po' dolente.
No, ti prego, non ricominciamo la trafila, fai che due pastiglie e via, non voglio, non voglio! 
 
Il mattino dopo vado dal medico, mi visita, mi prescrive due antinfiammatori di cui uno specifico per i linfonodi (per quei pochi che mi sono rimasti), e mi dice di tornare dopo quattro giorni se non fosse cambiato nulla. Dopo quattro giorni uno dei due antinfiammatori mi ha fatto una brutta reazione, mi ha letteralmente steso, così ovviamente l'ho sospeso, e mi sono presentata il lunedì successivo a visita con il seno uguale ad otto giorni prima, si è sfiammata solo la parte ascellare.
Il medico mi rivisita e mi manda a fare una ecografia urgente.
Il giorno dopo faccio l'ecografia, la dottoressa (santa subito) che mi esamina cerca di tranquillizzarmi (dopotutto me lo hanno insegnato gli oncologi anni fa: se fa male al 99 per cento delle probabilità non è cancro, perchè il tumore al seno non è vascolarizzato), ma mi prenota una risonanza magnetica per la settimana successiva. L'eco vede molto poco.
Lunedì scorso ho fatto questa risonanza. Tra l'altro nel Little Hospital, cosa nuova visto che il reparto ha da poco più di un mese il macchinario e quindi il servizio, finalmente. Comodo perchè è vicino, comodo perchè c'è poco da fare, i visi sono sempre gli stessi, sono sempre stata trattata con cortesia, e sono aspetti che aiutano ad affrontare l'esame con un filo di ansia in meno. Comodo perchè il macchinario nuovo di pacca permette di posizionarsi in maniera molto più agevole rispetto a quello con cui ho fatto lo stesso esame nel Big Hospital quasi due anni fa, se pur a pancia in giù.

Ho trascorso cinque giorni in iperattività domestica nonostante la fatica data dalle temperature, per non pensare. Sapevo che l'esame non avrebbe messo fine a niente, che ormai il rovesciamento del calzino è stato avviato, sapevo che non me la sarei asciugata con un'altra fila dal mio medico per farmi dire "sono ghiandole infiammate, passerà" e aver chiuso la pratica così. Ed era quello che più volevo evitare.
Oggi ho ritirato l'esito della risonanza. Nel mio seno sinistro c'è un bel macello, ha l'aspetto di una grossa infiammazione ghiandolare su più ghiandole, non sembra esserci ripresa di malattia, MA mi mandano a visita oncologica alla veloce per precauzione, con tanto di impegnativa con priorità già inserita nella busta assieme al referto e al CD. Sarò vista martedì 22 agosto.
Stia tranquilla ma balliamo ancora.
E non ci sarà nulla di preoccupante. Perchè lo so. Ma questo seno così non deve stare perchè non è normale, e una soluzione va comunque cercata. Altri farmaci, una biopsia, che cappero ne so, vedranno loro. Gli eccessi di scrupolo sono la regola dove vengo curata, una eccezione forse in questo Paese dove il più delle volte si parla solo di lassismo in tal senso, tanto di cappello e tanto di grazie vista comunque la fatica che fanno. Va bene così.

Ma sono sincera. Non la sto prendendo bene. Me ne sono resa conto sul lettino dell'ambulatorio della radiologia, mentre la dottora passava lo scannerino sul seno durante l'ecografia. Sono entrata sorridente ed energica, ma quando la dottora ha detto che non vedeva nulla apparentemente che la facesse pensare ad una recidiva, senza capacitarmene io stessa mi sono ritrovata il viso bagnato. Come, non lo so. E non era sudore. Mentre tornavo a casa, già sapendo di dover attendere la telefonata per la risonanza (mi è stato detto prima di essere congedata), ho pianto. Non per la paura, ma per la mia debolezza. Per la vergogna di non essere l'immagine della perfezione che probabilmente ho sempre preteso da me, e di cui mi sono resa conto solo in questo periodo.
Quando ho assistito alla seconda diagnosi di mia madre, lo scorso gennaio, mentre il chirurgo interrogava lei, l'oncologo mi ha fissato per un momento, e deve essersi accorto che trattenevo il groppo in gola. Mi ha sorriso, ha spostato lo sguardo sul monitor che aveva accanto, e ha detto al chirurgo che stava dall'altra parte della stanza "A Sara si stanno risvegliando vecchi fantasmi, ed è comprensibile". Mi sono scusata.
 

E' vero. E non riesco a farci proprio niente. Ci sono cassetti che più cerchi di tenere chiusi e più il contenuto preme per impedirtelo. L'ho negato con tutte le mie forze quel fantasma, perchè pensare al cancro dopo sette anni l'ho sempre ritenuto una cosa stupida, da persone fragili, e io ho delle responsabilità in famiglia, non posso essere fragile. L'anno scorso le conseguenze delle cure ormonali si sono portate via utero ed ovaie lasciandomi in cambio una menopausa chirurgica che non sto tollerando proprio nel migliore dei modi, ma me ne sono fatta una ragione in qualche mese, e se brontolo o se ho degli scompensi di varie nature (praticamente ogni giorno) non la maledico più, so che devo farci i conti e pace, ma trascinarmi il pensiero del "mio" tumore al seno è una cosa che rifiuto da anni. Non voglio sentirmi come una bomba ad orologeria, perchè molto probabilmente non lo sono proprio, di tumore al seno oggi si può guarire. Non voglio fare la piattola che piange per una cosa ormai lontana, ho una avversione istintiva verso le donne che non sanno parlare d'altro che del loro cancro al seno dopo trent'anni come se tutta la loro vita si fosse fermata lì e dovessero morirne domani, quando ce ne sono ancora troppe che sono nel bel mezzo della bufera delle cure pesanti (e non parlo della terapia ormonale) che avrebbero tutti i santi motivi per cercare spalle su cui appoggiarsi perchè non riescono a guardare più in là del passo successivo a quello che stanno facendo oggi. La scorsa settimana ho dovuto chiamare in oncologia per fissare un appuntamento per mia madre, e indovinate un po'? Ho dovuto cercare il numero di telefono del reparto nella rubrica perchè l'avevo bello che dimenticato. DIMENTICATO. Cioè, pur facendo controlli ancora semestrali, non ho mai, MAI negli ultimi anni  sentito o avuto oggettivamente il bisogno (anche psicologico) di telefonare per qualsiasi cosa, perchè la mia salute l'ho sempre gestita col mio medico di base alla estrema bisogna e con gli specialisti del caso per le altre cose, che per una persona con una vita "normale" è la cosa più "normale". In questi sette anni ho fatto una infinità di cose, ho desiderato crescere, ho fatto progetti, ho costruito, intessuto rapporti, realizzato piccoli desideri, mi sono ripresa la vita. Sto crescendo mio figlio, ed è il pensiero più importante delle mie giornate. Non la malattia, mio figlio.
E adesso sono qui di nuovo in preda all'ansia, senza capire perchè, dato che oggettivamente la cosa più probabile è che tutto si risolva senza conseguenze. E soprattutto a condannarmi per questa debolezza. Eppure mi chiudo in me stessa, nascondo quello che vivo, mi rifiuto di dire a chicchessia  che sto vivendo giorni pesanti. Ho vergogna. Tutti hanno i loro problemi alla fine, e ci sono cose oltretutto che non voglio sentirmi dire, perciò mostro solo la faccia che voglio mostrare e mi proteggo.
No, non va bene. Non va bene che dopo sette anni debba riscoprire certi pensieri. Non va bene perchè mi sembra di non essere mai cresciuta. E in questo momento mi è intollerabile.


venerdì 4 agosto 2017

Lavori

Eccomi.
Non sono evaporata, benchè siano mesi che non aggiorno il blog e la temperatura di questi giorni possa far pensare ad una scomparsa per liquefazione.
Sono qui con i miei pensieri, le mie ansie, i miei mal di stomaco e i miei sbalzi di umore. E tutto il resto. O quasi.

Riassumo brevemente l'ultimo periodo.
Il Power è stato promosso (non c'era da dubitarne, anche se è arrivato al giorno dell'esposizione dei quadri alle porte della scuola con un carico di ansia non indifferente). Uno dei suoi due migliori amici, il Sam, è stato bocciato: l'altro, il famoso Gi di cui qui ho scritto decine di volte, è stato bocciato l'anno scorso. Ergo: siccome la cosa della bocciatura del Sam non è arrivata come un fulmine a ciel sereno, perchè grazie al cielo in questi anni (a differenza dei nostri) le probabili bocciature vengono fatte ventilare alle famiglie e ai ragazzini alcuni mesi prima di giugno, nelle settimane precedenti la fine della scuola il Power era stato preso da un pensiero che è assurdo se fatto da un adulto, ma nella mente contorta di un adolescente sto imparando che... ci sta. Si era messo in testa che chiunque si fosse  affezionato a lui sarebbe destinato alla bocciatura. Inoltre, come conseguenza diretta, prima o poi toccherà a lui, e se mamma e papà continuano a dirgli "non abbiamo ricevuto lettere nè convocazioni da parte dei prof", mentono per non farlo smettere di lavorare sodo prima del tempo. Non ha nessun senso, se si pensa che basta fare due conti sommando i voti delle verifiche sul libretto e facendo le varie medie per vedere scritto nero su bianco che l'unico buco del semestre è in storia, e non si boccia nessuno per un solo "buco". Ma andateci voi ad esplorare la testolina di un tredic-e-mezzenne che vive nel suo mondo, con l'autostima sotto ai sandali, e per il quale i visionari sono gli adulti alieni che lo circondano.
In ogni modo adesso si sta facendo più serio il pensiero della scuola superiore, e si, faccio outing: il Power punta al liceo scientifico. Ne ha visti due con la scuola (vedi post precedente) e gli sono piaciuti moltissimo, se ne è discusso in casa, ha dato un'occhiata alle materie di studio e gli sono brillati gli occhi, i prof hanno tirato fuori il discorso durante gli ultimi colloqui (lo scorso maggio) e sono concordi nell'affermare che il Power ha una testa da liceo scientifico, anche se gli manca il senso di responsabilità necessario per intraprendere un percorso di studio che prevede tanto impegno su base teorica. In parole povere è ancora molto, molto crudo. Ma si tratta di un ragazzino che non ha ancora quattordici anni, che ha ancora mesi davanti per crescere in tal senso, che può anche darsi che cambi idea come pure no, e che se dovesse sbattere il naso si tamponerà il necessario, perchè non gli faremo mancare nè le garze nè la busta del ghiaccio. Ora tutto è possibile. Però, e qui lo dico sottovoce da mamma che nella vita ha fatto tutt'altro perciò in materia perfettamente ignorante, io quella testolina macchinatrice senza sosta e curiosa come un gatto di poche settimane, con una memoria da computer del fisco e la cui lettura preferita (romanzi fantasy a parte, quelle sono il top del top nella sua biblioteca personale) sono le riviste "Focus" da tempo immemore (si è pappato tutti i numeri arretrati che collezionava mio marito da giovane, conservati dai miei suoceri, e quelli di qualche anno fa che possiede mia madre li ha consumati a forza di sfogliarli a ripetizione)... si, ce lo vedo e mi inorgoglisco. Ma lo tengo per me.

Le prime settimane delle (sue) vacanze l'Omo ha preso licenza, e ci siamo dedicati a due lavori molto... fisici. Il primo, il più pesante: abbiamo ridipinto le camere da letto.
Arancio e giallo per la camera del Power


 (bleah... per me sarebbe una cosa intollerabile aprire gli occhi al mattino e vedermi schiaffata addosso una parete color zucca, ma de gustibus...), azzurro molto intenso quasi blu la nostra

(come era prima). Un lavoro più pesante del preventivato, soprattutto la cameretta, che una volta finito di svuotarla, guardando a tutto quello che siamo riusciti a tirar fuori da quella stanza, non mi capacito di come sia riuscito a starci tanto materiale dentro. Ho colto l'occasione per costringere i miei uomini ad eliminare un po' del loro ciarpame assieme al mio, avendo scoperto quella manna dal cielo che è il metodo Konmarie che mi sta aiutando non solo a fare spazio ed ordine, ma a rivedere anche alcuni parametri della mia vita. Ma è un discorso a parte. Comunque, il Power ha finalmente buttato (BUTTATO) un discreto quantitativo di giocattoli rotti, e si è liberato di giochi di quando era molto piccolo ancora in perfetto stato destinandoli al centro d'ascolto di zona che li ha presi volenteri, mentre uno scatolone di libri cartonati e con le finestrelle ha preso la strada della biblioteca comunale. Mi ha meravigliato la serenità con cui il Power ha affrontato questo distacco, è la prima volta che si libera di qualcosa di suo in questo modo. L'operazione gli ha richiesto un intero pomeriggio, e ho lasciato fare totalmente a lui. L'ho sorpreso solo un momento guardare un vecchio gioco in plastica con gli occhi lucidi, una vecchia locomotiva rossa con i particolari dorati grande come due mani spalancate, l'ho sentito sospirare a fondo, non ho voluto che notasse che lo stavo guardando e mi sono nascosta dietro alla porta socchiusa. E' durata un paio di minuti. Poi ha riposto il vecchio gioco nello scatolo da mandar via, e ha proseguito ricominciando a canticchiare come prima.
Cresce. E devo sforzarmi di lasciarlo fare a modo suo.
Seguitamente al lavoro di pittura (e con quello che è seguito dopo di sistemazione, decluttering, riordino, pulizia, eccetera eccetera) l' Omo ha aperto e pulito la canna fumaria della stufa a legna, con annessi e connessi. Immediatamente dopo è arrivata la prima metà del carico di legna per il prossimo inverno (la seconda è arrivata la scorsa settimana), perciò lui e il Power si sono dedicati allo svuotamento della legnaia e alla sistemazione dell'ambaradan nuovo.

Finito tutto, l'Omo ha ripreso a lavorare, il Power ha iniziato a fare i compiti e a frequentare il centro estivo della parrocchia (che termina proprio oggi), e io proseguo nel konmarizzare casa e vita un po' alla volta mentre mi occupo di loro. E di una mastite che mi sta facendo fare un po' di corse che non avevo messo in preventivo. Ma questo è un altro post.

venerdì 28 aprile 2017

Scegliere

Ci sono persone che fin da bambini avevano le idee chiare su cosa sarebbero volute diventare da grandi, e hanno raggiunto i loro obiettivi. Altre non ce l'hanno fatta e hanno intrapreso strade diverse, o hanno cambiato idea mille volte come fanno di solito i bambini. Ma insomma, alla domanda "da grande cosa vuoi diventare?" una risposta più o meno fantasiosa la davano.
Ecco, il Power no. Mai fatto. Anzi si, c'è stato un periodo da piccolo (parlo dell'età da asilo) in cui diceva "voglio diventare come il mio papà", e si provava spesso il suo cappello e qualche pezzo di uniforme. E' durato poco: per la precisione ha smesso di dirlo quando si è accorto che il suo papà spesso va a lavorare di notte, e (cosa abominevole) vede sangue, gli capita di tirar su cadaveri dal Tiliment o da qualche campo, si infila in case puzzolenti. "Nonono mamma, troppa fatica e troppa puzza". Grazie al cà.
Qualche giorno è durato il "farei volentieri la guida turistica", che detto così in maniera molto leggera, si, pensando a quanto gli piacciono storia e lingue, i viaggi, i libri e parlareparlareparlare, tutto sommato non ce lo vedo così male. Ma è passata presto, per la precisione nel momento in cui la prof di lettere gli ha detto chiaro e tondo che per un mestiere del genere o si dà una regolata nei rapporti umani (e qui caliamo un velo pietoso) o no, non c'è trippa per gatti. E mister "mi spezzo ma non mi piego" ha ripiegato su sè stesso il concetto e l'ha messo in tasca. Almeno per il momento.

Per il resto, sull'argomento, in tredici anni e pochi mesi di vita, buio totale. "Sorvolamento" altissimo. Scansamento triplo carpiato del discorso. "Chi me lo fa fare di pensare al mio futuro, ho altro da fare adesso". Futuro, concetto questo molto astratto, per come me la raccontano i grandi.  Futuro è il voto che mi aspetto nella verifica di storia dell'arte di martedì scorso, che deve essere almeno un otto per compensare alle insufficienze nei disegni, o mi tolgono lo smarfono per una settimana. Futuro è cosa si mangia a cena. Futuro è non vedo l'ora che finisca la scuola, che viva le vacanze estive. Fine. Lasciami giocare una partita a Clash".
E ci sta eh. "Vivi qui e ora", filosofia tanto sbandierata come panacea di tutti i mali, il segreto per vivere felici. I gatti lo fanno sempre e sono felici (i miei, almeno, danno questa impressione), forse il Power ha preso da loro. E va anche bene, mica bisogna vivere l'infanzia anche con l'ansia del domani, altrimenti cosa si è bambini a fare? Basta a noi adulti, l'ansia e la preoccupazione di come invecchiare.

Perchè lo tiro fuori adesso?
Semplicemente perchè è ora. Non è una mia fantasia, no. O meglio, ho avuto il dubbio che lo fosse per un po', perchè noi mamme un po' avanti ci guardiamo sempre, no? E ci preoccupiamo, e ci fantastichiamo, eccetera eccetera. Poi qualcuno arriva da dietro e ti ricorda che "cacchio, è solo un bambino, lascialo in pace, ci si penserà al momento". 

Ma il momento arriva. Il momento di farsi un'idea di che scuola scegliere dopo la terza media. Che siamo ancora in seconda, anche se tra poco più di un mese sarà bella che finita (ma anche meno, togli le feste, i ponti, gli scrutini, i fine settimana... ). Abbiamo iniziato a parlarne nel periodo delle scorse festività natalizie, io e il Gatto Alfa. Qualche amico con i figli in terza media si preparava, finito il giro delle "scuole aperte", a fare la preiscrizione per la scuola superiore, ed è venuto naturale parlarne in casa tra me e lui (rigorosamente tra me e lui, dato che tutti, dai professori ai genitori senior, ci hanno fatto una testa pesa che "aaaaaaa non mettetegli l'ansia addosso che fate peggio". No no, per carità, i tic nervosi gli vengono già per altri motivi, non carichiamo la dose. Però magari smettetela di chiedergli "cosa vuoi fare da grandeeeeee?", allora. Decidetevi).
Ci siamo comprati un libriccino ad hoc (che mica andar di notte, eh).

Lo abbiamo letto e riletto. Un'idea ce la siamo fatta, e ce la siamo tenuta stretta per un po', lasciando "a portata di zampa" il libretto incriminato (che per inciso, è dedicato dichiaratamente ai genitori ma anche ai ragazzini, quindi leggi, Power, non te lo diciamo ma te lo lasciamo intendere, leggi).
La zampa in questione, una sera, ha azzampato. Eravamo soli io e lui.
Per dirla alla Lucia dei Promessi Sposi... "Madre, che d' è?".
D'è che voglio pungerti, figliuolo, su qualcosa che ti riguarda direttamente.
Abbiamo letto insieme, abbiamo parlato per due ore, ho cercato di fare la madre moderna che ascolta, la madre molto zen, la madre che non interviene se non è necessario, la madre che riformula, la madre che cerca di rispondere senza metterci del suo se non è richiesto.
Buio. Buio totale. "Ma secondo te cosa posso diventare?". Eh, tesoro, tante cose. Quello che vuoi, penso. Nella tua incertezza cosmica, nella tua totale assenza di progetti e nei tuoi trilioni di rotelline che girano in quel cervellino macrocosmico, solo tu puoi tirarne fuori qualcosa. Posso dirti la mia idea (che diciamocelo, basta con sta balla che per una mamma va bene tutto purchè sia felice e basta, non è vero gnnnnente, certo che va bene tutto e la felicità e via dicendo, ma le fantasie ce le facciamo eccome, se non altro perchè conosciamo i nostri polli e un minimo delle loro doti le vorremmo vedere esplodere in qualcosa di concreto), ma sarà la mia, e non è detto che debba essere per forza anche la tua. Questo deve essere chiaro.
"Una volta ho letto su un giornale che... ed ecco, mi è venuto in mente che potrei...".
"E' un obiettivo importante, Power. Potresti farcela, penso. La scuola che ti aiuterebbe ad arrivarci è la XXX. Ma devi metterti di impegno e studiare molto, perchè l'attività pratica di quella scuola è pari a quasi zero. Bisogna studiare. Cose che so che ti piacciono molto e che finora ti hanno fatto prendere voti molto buoni, ma c'è da studiare, e tanto. Ma a pensarci bene, secondo me ti piacerebbe. Quando si studia qualcosa che piace, si fa volentieri, no?"
Il discorso è stato abbandonato lì, con la speranza (nostra) che comunque la cosa inziasse a frullare nel cervellino del tredicenne. Che ne so, che si facesse almeno qualche domanda.
Manco per sogno. Ho sospettato sul serio di aver viaggiato io con la mia, di fantasia, un po' troppo in avanti. E va bene, mi sono detta, aspettiamo che lo stimolo arrivi dalla scuola: loro lo sapranno quando è il momento giusto, no? 

Guarda il caso, pochi giorni dopo il discorso di cui sopra l'insegnante di lettere, per una verifica di italiano, ha tirato la prima lenza. Tema a scelta: "Scrivi una lettera ad un immaginario amico di penna straniero annunciandogli la tua imminente visita nel suo Paese", oppure "Scrivi una lettera ai tuoi genitori parlandogli delle tue idee sul tuo futuro". Neanche dirlo, il Power ha scelto il primo tema. E va bene. (No, non va bene, apriamo una lunga e inutile parentesi, perchè quando mi ha detto cosa ha scritto e quanto ha scritto - mister Lingualunga Pennamozza - gli ho risposto da madre molto schietta senza troppa delicatezza che era un tema da 5, mi ha accusato di avergli rovinato la giornata - tsè, ti passa, figghiu, prima o poi ti deve entrare in testa che la manichetta corta non copre una ceppa, e che la prof non fa beneficenza -, e indovinate? La vera giornata rovinata l'ha avuta due settimane dopo quando la prof in questione gli ha vergato un bel 5 sul libretto dopo avergli consegnato la verifica corretta. Corretta? Manco per chissà cosa, ortografia ineccepibile, ma stesura da stitico cronico. "Ma', che hai la sfera magica? Che PRO che sei!!!". No more words about).

Dicevo.
La prossima settimana, sorpresa sorpresa, una prof accompagnerà la sua classe in visita ad un plesso scolastico (più scuole superiori in un unico istituto, che spaziano dai licei a diversi istituti tecnici e professionali) in uno dei due grossi Comuni limitrofi. La settimana successiva si recheranno nell'altro Comune ad una visita analoga.
Oggi la stessa insegnante di lettere ha assegnato come compiti per casa la stesura proprio del tema che il Power non ha scelto alla verifica di cui sopra, formulata in altro modo, ma quella è la sostanza che deve tirar fuori.

Ci deve pensare. Non c'è storia, come si dice dalle mie parti, "o de riffa o de raffa, quea ze". Anche se non vuole. Magari farsi un'idea per poi cambiarla, ma farsela. Guardare sè stesso in prospettiva. Oggi, prima di iniziare a svolgere il compito, ha protestato. Per lui è un pensiero ostico. Ha le sue ragioni per evitare di addentrarsi in questa cosa, forse anche solo il rifiuto di lasciare la culla dei pensieri da bambino che sono comodi comodi. Questo lo sa lui. Ma non si può più prendere tutto il  tempo che si vuole. Bisogna crescere un filino, pensare un po' più in grande.
Giorni fa sono stata a colloquio con il professore di matematica e scienze, e tra le altre cose gli è scivolata la domanda "ha un'idea per le scuole superiori? Anche mezza?". "Prof, lui vorrebbe visitare tutte, ma proprio tutte le scuole superiori nel raggio di cinquanta chilometri e poi vagliare, sto tentando di fargli entrare in testa il concetto che su un angolo giro è il caso di ritagliarsi una fetta perlomeno di che so, trenta gradi, magari andando per esclusione". Io gli ho nominato l'unica mezza idea che gli è venuta durante il colloquio serale seguito alla scoperta del libretto-guida e subito messa da parte, e la risposta è stata "assolutamente no signora, perchè la testa per quella scuola ce l'ha tutta, ha la forma mentis adatta, ma se non cresce un minimo non ce la farà mai. Anzi, se non si responsabilizza un po' qualsiasi scuola non va bene ( ....... ok.....), è profondamente immaturo sa...". Confortante, grazie per la rivelazione.
"E allora tenetemelo indietro un anno, scusi, perchè detta così non mi aiuta di certo. Se serve tempo, diamoglielo". 
"Ah no, con questi voti il Power bocciato? Signora, non scherzi. Dovremmo bocciare tre quarti di classe".
Ok, mettiamo questa conversazione nel cassetto dei dialoghi inutili e ricominciamo da un altro lato quando sarà il caso.

Mi rendo conto che è facile, in questo tipo di situazioni, lasciarsi sfuggire commenti sui ragazzi di oggi e su quanto siano privi di determinazione, di idee, di progetti, di voglia di fare. Su quanto siano diversi da come eravamo noi al loro posto. E vi dirò la verità, questo tipo di discorsi e di luoghi comuni mi stanno irritando molto.
Non li si aiuta, facendo sempre paragoni. Non li si aiuta se ci si ferma a fare paragoni anzichè usare lo stesso tempo per capirli. Non so, sarà perchè adesso che mi trovo a questo punto della mammitudine devo schierarmi dalla parte del sostegno, e non del giudice. Da questa parte la voglia di giudicare ti passa. Da questa parte sento la necessità di comprendere come pormi, di come farmi da parte senza farmi da parte del tutto, la necessità di sapere come accompagnare senza impormi. Non è una cosa semplice nemmeno da spiegare. Cerco di guardare il passo che faccio man mano che si presenta.
Certo, viene naturale ricordare come abbiamo scelto noi "quella volta". Io? Io non ho avuto molta scelta. I criteri di scelta per la scuola superiore, in quegli anni e nel contesto sociale in cui sono cresciuta, e con la situazione famigliare che avevo al tempo (la peggiore della mia vita) sono stati decisamente altri. Alla fine non ho mai svolto la professione per cui ho studiato, e non ho nemmeno studiato per la professione che avrei voluto intraprendere. E' andata così. Io le idee chiare le avevo eccome, ma mi sono state tarpate le ali dalle circostanze, e mi sono reinventata con alti e bassi quello che è venuto dopo, un po' con la volontà, moltissimo col caso. Erano altri anni e c'erano altre esigenze. Avevo un'altra educazione.
Ma mio figlio non è me e non è della mia vita che si parla. Ha una situazione famigliare stabile e serena, basi molto più solide delle mie alla sua età, un carattere completamente diverso dal mio, attitudini diverse, due genitori con mentalità completamente diverse da quelle dei suoi quattro nonni rispetto allo studio, presupposti che se ci penso adesso, magari averli avuti io per poter fare della mia vita quello che volevo! E devo recitarlo come un mantra: mio-figlio-non-è-me. Ed è un sacrosanto diritto il non esserlo, l'avere il vuoto in testa, il cincischiare ancora, magari scegliere una scuola che poi si rivela sbagliata e ripetere un anno o cambiarla perchè ha capito di aver preso una cantonata atomica, che non è scritto poi da nessuna parte che sia sbagliato e non sarà mica la fine del mondo, perchè - e cerco di ripetermelo più spesso che posso - una persona che stimo molto mi ripete spesso "ricordati che le somme si tirano alla fine". 
Dovrò avere molta pazienza, forse più con me che non con mio figlio, perchè alla fine le aspettative sono le mie, non le sue, sono io che vorrei vederlo instradato e determinato (a tredici anni... forse siamo un po' tutti a pretendere un po' tanto da dei tredicenni...). Lui non le ha ancora.
Anzi, si, una ne ha. E molto, molto chiara.

"Mà, non so cosa fare da grande, ma voglio a tutti i costi fare un lavoro che mi faccia pensare con la mia testa, non con quella degli altri". 

Dai Mamigà, sforzati. Fatti da parte il giusto e lascia che la vita, la sua vita, faccia il suo corso. Non è più un bambino, mettitela via. Molla. Lascialo in pace. Magari si fa i suoi bei giri delle scuole con i prof e i compagni di classe e si entusiasma per qualcosa che manco ti immagini, torna a casa con la faccia stravolta, gli occhi illuminati a faro e WOW MAMMA! POTREI....  Oppure no, ma armati di pazienza e aspetta, e vedi, e stai positiva verso di lui, che il futuro può essere fantastico, e lui deve poterci guardare dentro con quegli occhi a faro, a questa età, per poter partire. Non fare come è stato fatto con te trent'anni fa, "no, no, no, potrebbe succederti questo e quest'altro, il disastro sopra il disastro", così tu non hai scelto, e stai ancora a rimuginare sui sogni che ti sono stati tolti, in perfetta buona fede, ma tolti. Il Power te lo ha dimostrato infinite volte, non puoi darlo per scontato. Magari fa come il suo papà, che quando eri incinta tentavi di farlo entusiasmare di questo cosino che cresceva e scalciava intra panza e lui ti diceva che finchè non lo vedeva uscire di lì non riusciva a entrare nella parte del paparino adorante, tu ci soffrivi perchè non la percepivi una cosa che prometteva bene e ti sentivi polla e sola dentro, e alla fine il primo pannolino glie l'ha cambiato lui, e sono diventati Yoghi e Bubu forever. Che i maschi le cose devono averle davanti agli occhi per vederle, non sempre sanno cercarle, anzi quasi mai, e se non le vedono non esistono, come il barattolo dei fusilli che non esiste perchè sta dietro a quello degli spaghetti, e mica sarà tutto sto dramma se la professoressa di lettere gli sposta gli spaghetti per mostrargli i fusilli mentre tu non potevi fare altro che spiegarglielo a parole. Alla fine sono le somme che contano, no? 

Stay tuned.