-... e alle undici e zero sette ha fatto l'ultimo lungo respiro. Non c'era più.
- Ma il messaggio che mi hai mandato ieri sera è delle undici e pochi minuti! Neanche il tempo di...
- Avvisarti è la prima cosa che ho fatto. Sapevo che eri sveglia con me, con noi. Poi ho aperto la finestra, e l'ho lasciato volare via.
E' stato in quel momento, ieri sera, al telefono, che sono diventata piccola come un granello di sabbia.
La sera di Natale.
martedì 26 dicembre 2017
domenica 24 dicembre 2017
Mentire
Ho scoperto di saper mentire bene. Tipo dire a una persona "ti capisco", in realtà non è assolutamente vero, ma questa mi crede. E no, non dico sempre bugie, ma in questa situazione non me la sono sentita di essere sincera.
Ho sempre pensato di non essere una grande buona amica, in realtà, per nessuno, per tanti motivi. "Lei" è convinta che io lo sia. Da sempre.
Per un buon periodo della nostra vita abbiamo condiviso un milione di cose: siamo coetanee, abbiamo un legame di sangue, abbiamo condiviso un anno di scuola superiore (poi "Lei" è stata bocciata ed è andata a lavorare in fabbrica, trent'anni fa si poteva, io continuai a studiare ancora un anno). Per un secondo periodo ci siamo divise: vite diverse, storie famigliari complicate, scelte che portano lontano, traslochi, crescita e cambiamenti. Ci siamo riavvicinate con il mio matrimonio.
"Lei" ed io, però, siamo profondamente diverse, anche se per i giri strani delle storie delle persone ci troviamo, a distanza di tempo, guardacaso, a condurre apparentemente quasi lo stesso tipo di esistenza: marito, un figlio, casa da gestire, genitori anziani da accudire a duecento metri da casa e suoceri anziani da guardare a una decina abbondante di chilometri. Il "quasi" comprende tutte le variabili possibili, ovviamente. Soprattutto quella del carattere. A circa novanta chilometri di distanza una dall'altra: riusciamo materialmente ad incontrarci un paio di volte l'anno, ma ci sentiamo quasi quotidianamente.
"Lei" è fondamentalmente timida. Non di quelle timide che non hanno il coraggio di affrontare le cose della vita che si presentano, ma di quelle timide diffidenti che non si aprono con nessuno. Quel tipo di timida che non trova facilmente il modo per esprimere quello che pensa, le poche volte in cui ci riesce arrossisce come le donnine di una volta, e fa una tenerezza infinita. Io no, se voglio parlare parlo anche con le orecchie, e se decido di non parlare con qualcuno è perchè o non ho niente da dire, o perchè non lo ritengo necessario. "Lei" è di quelle timide che è facilissimo far sorridere e ridere, mia nonna ci riusciva perfino a comando per schernirla, e quando sorridono e ridono ruotano su loro stesse di novanta gradi perchè si emozionano, ma farle smettere è difficile. Io sono una musona che ride quando ha un motivo valido per ridere, e anche quando sono contenta non è automatico leggermelo in viso, perchè ho un viso fatto così. O forse ho solo antipatia per la mia brutta bocca dalle labbra sottili, dai denti storti e dal morso completamente sfasato, il contorno delle labbra indeciso e il mento pronunciato, e per lo più quando rido cerco di non farmi vedere la bocca e abbasso o giro la testa di istinto.
Abbiamo trascorso insieme l'adolescenza. Insieme abbiamo fatto l'abbonamento a "Dolly", insieme abbiamo iniziato a frequentare il gruppo di amici, insieme abbiamo imparato a metterci la matita nera sugli occhi di nascosto dalle nostre madri e facendo memorabili figure da panda; insieme abbiamo acquistato le nostre prime gonne corte, il primo rossetto color glicine macroperlato che negli anni ottanta se non l'avevi eri sfigata (e stava da schifo a tutte e due: a me per le labbra indefinite, a lei per le labbra molto carnose che ha. Ma poi, c'era qualcuno a cui stava bene quella ciofeca?), il primo costume sgambato, il primo deodorante spray, il primo reggiseno taglia I, i primi orecchini a cerchio che con i miei lobi ben aderenti al collo facevano stare i cerchi a mo' di attrezzo da domatore di leoni del circo (e insieme siamo andate anche a farcele forare, le orecchie), le prime scarpe con quelle zeppe di gomma dura che ti spaccavano le articolazioni delle dita dei piedi ad ogni passo e facevano vesciche da un metro quadro solo provandole in negozio. Insieme abbiamo imparato a cucirci le spalle imbottite da sole sulle camicie bianche, sui giubbini di jeans e sulle maglie di felpa a collo alto.
Quando avevamo quattordici anni eravamo compagne di banco in prima superiore; uno dei primi giorni di scuola nell'iniziare con una fatica enorme il suo compito di italiano, un tema ( il cui titolo era "Parlo della mia migliore amica"), dopo aver scritto la prima sudata frase (in italiano non ha mai portato a casa una sufficienza, ma ci ha sempre provato con un impegno non da poco) attirò la mia attenzione con una mezza gomitata a testa bassa. Alzai il naso dal mio foglio e la guardai di sbiego, lei alzò di sbiego il suo foglio e con un labiale ampio, sorridente e ben scandito mi disse "GGG-UUUU-AAAA-RRRR-DDD-AAAA". Aveva scritto "La mia migliore amica è mia (grado di parentela) Mamigà".
Mi sentii un verme. Sul mio tema non avevo deciso di parlare di lei, ma di un'altra persona (che se penso adesso alla persona che allora ritenevo la mia migliore amica mi vengono i brividi. Mica che sia cattiva eh, anzi, è una delle persone che godono della mia massima stima e grande affetto, ma non la considero certo un'amica, però allora la pensavo così) e non avevo il coraggio di dirglielo. Che poi se ci ripenso non ero certo obbligata a farlo, ma nei suoi occhi il punto interrogativo si leggeva come una scritta al neon. Finsi uno starnuto, la professoressa guardò verso di noi e io ripresi a scrivere sperando che "Lei" dalla soggezione non mi guardasse più almeno fino al termine delle due ore in corso. Brutta cosa l'imbarazzo a quattordici anni. L'imbarazzo dei quaranta ha tutto un altro peso, per questo certi ricordi di adolescenza non te li levi dalla testa neanche con l'ipnosi penso.
A distanza di trent'anni il rapporto tra me e lei non è cambiato di molto. C'è stata, appunto, la fetta di vita durata una quindicina di anni in cui ci siamo separate, ma da quando ci siamo riunite il nostro modo di comunicare è tornato quello di una volta.
Quale?
Il suo, quello di raccontarmi ogni virgola di quello che fa.
Il mio, quello di raccontarle solo la fetta di quello che faccio che può generare un discorso e non un monologo.
Il suo, l'ascolto affettuoso.
Il mio, l'ascolto affettuoso.
Che lei, mamma e casalinga per scelta e traguardo a cui aspirava fin da quando ha iniziato a parlare (per il modo in cui è stata educata, boh... mia madre e sua madre sono state due madri dalle idee educative diametralmente opposte) parla di sua figlia, di sua figlia, di sua figlia e di sua figlia. Talvolta anche di sua figlia. E io vorrei davvero parlare del miliardo di altre cose che mi passano per la testa, delle tante cose che mi interessano, che faccio e che vorrei fare oltre ad essere mamma visto che mio figlio ormai è grande e grosso e quasi quattordicenne (la sua ha nove anni), ma ogni volta che cerco di spostare il dialogo su qualcosa che non sia sua figlia, o occasionalmente mio figlio (perchè a onor del vero si, mi chiede spesso come sta dai) , dopo pochi secondi o cerca di dirottare il discorso di nuovo su sua figlia (perchè è l'unico argomento su cui ha qualcosa da dire) o mi ascolta in silenzio. Non sto esagerando. E' esattamente così. Obiettivamente sarò anche fatta male, ma credo che la parola "dialogo" comprenda qualcosa di più vasto.
E' noiosa. C'è poco da fare. Non era noiosa quando avevamo quattordici anni e parlava solo del fidanzato che le sarebbe piaciuto avere e non aveva, dei figli che avrebbe voluto avere, e dell'ultimo numero di "Dolly" uscito, perchè a quattordici anni, figli futuri a parte, io non avevo molte altre cose per la testa. Ma è noiosa adesso. O meglio, IO la trovo noiosa. E non glie l'ho mai detto, non l'ho mai ritenuto necessario, ascoltarla non mi costa niente, e poi se lei è felice e si sente realizzata così, pace. A me non cambia l'esistenza.
Chiamatemi ipocrita. Sono una grande, grandissima ipocrita, perchè non ho mai avuto la sincerità o le palle necessarie per staccarmela di dosso, mi direte.
E invece no. Sapete perchè?
Perchè "Lei" è capace di un grande, grandissimo affetto. E me lo riversa addosso a modo suo. Perchè lei non condivide il mio continuo cercare soddisfazione nella vita anche al di fuori dai miei doveri di madre e di moglie, me lo ha fatto capire tante volte, ma mi ascolta in silenzio perchè sa che per me è importante, e non dice nulla perchè realmente il mio mondo è così diverso dal suo piccolo universo che lei stessa non ha nulla da dire. Io non amo fare monologhi, mi piacciono le conversazioni che siano scambi di idee, informazioni, esperienze sui fronti più disparati, se poi in un certo senso mi proiettano in avanti mi gratificano da matti, per questo con lei mi annoio, e le sue conversazioni monotematiche per me in certe giornate sono pesanti. Ma alla fine, appunto, ascoltarla che mi costa? Probabilmente quando cerco di chiacchierare di cose non riguardanti la mammitudine, io annoio lei. Ma quando lei mi dice "Ti voglio bene Mamiga, se hai bisogno di me sai che puoi chiamarmi quando vuoi come io faccio con te, sai?" so che è sincera. Quel "Ti voglio bene" dichiarato già nero su bianco sul compito di italiano, e mai dimenticato. Non sono molte le persone che dicono "Ti voglio bene" senza ritrattarlo al primo cambio di vento. E non sono molte le persone che, nonostante non condividano il tuo modus vivendi, lo accettano senza giudicarlo nè fartelo pesare perchè tu per loro sei comunque importante.
Ed è per questo che in queste ultime settimane le sto mentendo alla grande.
Tre settimane fa le è caduta sulla testa una tegola grossa e pesante quanto un ballatoio di granito. Indirettamente i pezzi della tegola si sono incastrati anche tra le pieghe della pelle di tutta la nostra famiglia.
A suo padre è stata data la peggior sentenza oncologica che si possa ricevere: tumore al pancreas metastatizzato. Speranze: zero. Conto alla rovescia: meno di un mese da allora. Cacchio, nemmeno il tempo di riuscire a pronunciare la parola "metastasi" senza fermarsi a metà dall'orrore. E siamo a venti giorni. Facile da scrivere adesso, impossibile da pronunciare con la bocca tre settimane fa. E sono tre settimane che cerco di iniziare questo post, riuscendoci solo stanotte. Perchè si, perchè non sapevo da dove iniziare, perchè so che ci sono un paio di persone che leggono che sanno di chi sto parlando e non dovevano sapere prima che lo sapesse chi di diritto (mica per una fissa mia, sia chiaro, ma per desiderio suo), perchè di certe cose come si fa a scrivere quando non si ha ancora metabolizzato quello che sta succedendo?
"Lei" mi chiama e mi uozzappa ogni giorno. La distanza è troppa per fare un salto tra la campanella di inizio e quella della fine della scuola, e in mezzo ci sta tutto il tempo possibile accanto al suo papà e la gestione materiale di tutta la situazione (lei ha una madre fisicamente molto limitata da varie patologie soprattutto scheletriche, e suo fratello lavora e fa quel che può). "Lei" si sfoga, piange, domanda. "Lei" ha voluto che le spiegassi com'è fatto un ambulatorio oncologico prima di portarci il padre, perchè per lei "pediatra" è un termine che usa con la stessa familiarità con cui prende una forchetta dal cassetto in cucina, ma "oncologo" era una parola immensa ma vuota, una enorme incognita che incuteva soggezione, come il lupo mannaro per un bambino, e si era fatta l'idea che in un ambulatorio oncologico ci fosse chissà quale odore, oggetto, ambientazione. "Lei" mi ha chiesto cos'è un catetere, come è fatta una pompa per la morfina, se è facile fare una iniezione sottocute, perchè non vuole fare la figura dell'ignorante quando arriva il medico per la domiciliare a suo padre a portarle queste cose. "Lei" ogni volta che cambia qualcosa, o che un medico le dice qualcosa, o ha occasione di riuscire a piangere, me lo dice, e mi chiede se è normale. Perchè "Lei" ripete spesso la frase "Tu ci stai passando da anni, tu puoi capirmi.".
E io le dico di si, e la lascio sfogare. E lei dopo un po' si calma. Riprende grinta. Riesce a ridere delle mie battute sceme.
E le dico di si sapendo di mentire, ma mentire forte. Ipocrita. Ipocritissima Mamiga. Perchè io ballonzolo con il cancro mio e di mia madre e tutto quello che c'è dentro a questa sfera maledetta dal duemiladieci, è vero. Ma io, signori miei, ho speranze più che fondate di uscirne in piedi di nuovo, giustificate dalle statistiche, sorrette dai mezzi a disposizione. Suo padre no. Perchè lei ha solo una vaga idea della differenza tra il mio cancro e quello di suo padre, lei è convinta che il grosso della differenza sta nel fatto che io sono sotto controllo da anni e lui no, per questo è stato preso tardi. Valle a spiegare che il tumore al pancreas è un assassino che anche a scovarlo presto, se hai il culo di scovarlo quando è ancora circoscritto lì, è peggio di una biscia impazzita. Io non so cosa vuol dire sentirsi dare una sentenza anzichè una diagnosi. So cos'è il terrore, ma non il terrore firmato dal medico. So cosa vuol dire reggere il pianto di una persona malata di cancro, non quello di una che morirà di cancro da lì a là. Anzi, si, l'ho provata quella sensazione dolorosa una volta, una volta soltanto, ma non ero coinvolta emotivamente come lo si è quando è da un genitore che ci si sta per separare. Posso dire di capirla? No. Ma lei è convinta di si, e glielo direste voi a una persona che vi si affida così ciecamente in un momento del genere, che ci state solo provando, a sorreggerla? Che state andando per tentativi? Che se i tentativi fatti di "chiamami anche di notte se vuoi", "avete tante persone che vi vogliono bene", "gli stai dando tutto l'amore che puoi", "non sei debole perchè piangi, non sentirti in colpa, il forte piange ma rimane e si tira su le maniche come te", se questi tentativi la reggono in piedi è solo per puro culo e non sono dettati dall'esperienza come lei crede? Io mi sto affidando solo al mio istinto, ma sono arrivata al punto da temere di dire la cosa sbagliata prima o poi, e di finire spedita a quel paese. Però finora questo non è successo.
E poi c'è l'altro lato di questa vicenda che non deve sapere mai. Quando è iniziata stavo ancora aspettando il mio istologico definitivo. Vivere la pesantezza di questi mesi e accollarmi anche parte della sua. Lei non si è posta il problema "Mamigà potrà o non potrà?", è partita in quarta, e Mamigà inizialmente ha avuto un rifiuto interiore incredibile, una lotta mostruosa tra l'affetto per lei e l'istinto di proteggersi, senza trovare alla fine nessuna forma di compromesso. Mi sono sentita travolta, quasi trascinata, e prima di riuscire a fare mente locale e trovare il giusto posto per lei nei miei pensieri e nelle mie giornate, sono passata attraverso qualche notte quasi insonne ed incubi. E un picco di attacchi d'ansia aggiuntivi di cui ora non ho certo bisogno.
Poi, la decisione. Fredda e calcolata, forse, ma mi ha permesso di arrivare a stasera più serenamente.
Ho deciso che non posso salvare nessuno in questo momento: sto lottando per la mia vita, non sto curando una carie. Ho deciso che non posso essere empatica h24 con chi lotta più di me, o in sala operatoria non ci torno (a proposito, l'ultimo intervento ho dovuto rinviarlo, ho l'influenza). Ho deciso che dentro di me ci devono essere spazi e tempi definiti e distinti per questa cosa. Ho deciso di mettere dei paletti.
Fino a stasera.
E' la sera della vigilia di Natale. Poche ore fa suo padre è stato indotto farmacologicamente in un torpore dal quale non si sveglierà mai più. Stasera sono anche i miei, di ricordi, che riaffiorano. I ricordi di quest'uomo che in circostanze particolari tanti e tanti anni fa ha fatto per me moltissimo, in silenzio. Avrei dovuto andare a cantare stanotte, ma la musica, la mia amata musica, da ieri mi dà fastidio, stride nella mia testa come le unghie sulla lavagna, e non ci andrò. Stasera "Lei" lo veglia, aspettando l'inevitabile, e le ho promesso che avrei vegliato con lei da lontano, perchè in qualsiasi momento "Lei" si sentisse crollare io nel modo in cui posso ci voglio essere. Perchè "Lei" dice "tu puoi capirmi", e questa sarà la notte peggiore della sua vita.
Ho sempre pensato di non essere una grande buona amica, in realtà, per nessuno, per tanti motivi. "Lei" è convinta che io lo sia. Da sempre.
Per un buon periodo della nostra vita abbiamo condiviso un milione di cose: siamo coetanee, abbiamo un legame di sangue, abbiamo condiviso un anno di scuola superiore (poi "Lei" è stata bocciata ed è andata a lavorare in fabbrica, trent'anni fa si poteva, io continuai a studiare ancora un anno). Per un secondo periodo ci siamo divise: vite diverse, storie famigliari complicate, scelte che portano lontano, traslochi, crescita e cambiamenti. Ci siamo riavvicinate con il mio matrimonio.
"Lei" ed io, però, siamo profondamente diverse, anche se per i giri strani delle storie delle persone ci troviamo, a distanza di tempo, guardacaso, a condurre apparentemente quasi lo stesso tipo di esistenza: marito, un figlio, casa da gestire, genitori anziani da accudire a duecento metri da casa e suoceri anziani da guardare a una decina abbondante di chilometri. Il "quasi" comprende tutte le variabili possibili, ovviamente. Soprattutto quella del carattere. A circa novanta chilometri di distanza una dall'altra: riusciamo materialmente ad incontrarci un paio di volte l'anno, ma ci sentiamo quasi quotidianamente.
"Lei" è fondamentalmente timida. Non di quelle timide che non hanno il coraggio di affrontare le cose della vita che si presentano, ma di quelle timide diffidenti che non si aprono con nessuno. Quel tipo di timida che non trova facilmente il modo per esprimere quello che pensa, le poche volte in cui ci riesce arrossisce come le donnine di una volta, e fa una tenerezza infinita. Io no, se voglio parlare parlo anche con le orecchie, e se decido di non parlare con qualcuno è perchè o non ho niente da dire, o perchè non lo ritengo necessario. "Lei" è di quelle timide che è facilissimo far sorridere e ridere, mia nonna ci riusciva perfino a comando per schernirla, e quando sorridono e ridono ruotano su loro stesse di novanta gradi perchè si emozionano, ma farle smettere è difficile. Io sono una musona che ride quando ha un motivo valido per ridere, e anche quando sono contenta non è automatico leggermelo in viso, perchè ho un viso fatto così. O forse ho solo antipatia per la mia brutta bocca dalle labbra sottili, dai denti storti e dal morso completamente sfasato, il contorno delle labbra indeciso e il mento pronunciato, e per lo più quando rido cerco di non farmi vedere la bocca e abbasso o giro la testa di istinto.
Abbiamo trascorso insieme l'adolescenza. Insieme abbiamo fatto l'abbonamento a "Dolly", insieme abbiamo iniziato a frequentare il gruppo di amici, insieme abbiamo imparato a metterci la matita nera sugli occhi di nascosto dalle nostre madri e facendo memorabili figure da panda; insieme abbiamo acquistato le nostre prime gonne corte, il primo rossetto color glicine macroperlato che negli anni ottanta se non l'avevi eri sfigata (e stava da schifo a tutte e due: a me per le labbra indefinite, a lei per le labbra molto carnose che ha. Ma poi, c'era qualcuno a cui stava bene quella ciofeca?), il primo costume sgambato, il primo deodorante spray, il primo reggiseno taglia I, i primi orecchini a cerchio che con i miei lobi ben aderenti al collo facevano stare i cerchi a mo' di attrezzo da domatore di leoni del circo (e insieme siamo andate anche a farcele forare, le orecchie), le prime scarpe con quelle zeppe di gomma dura che ti spaccavano le articolazioni delle dita dei piedi ad ogni passo e facevano vesciche da un metro quadro solo provandole in negozio. Insieme abbiamo imparato a cucirci le spalle imbottite da sole sulle camicie bianche, sui giubbini di jeans e sulle maglie di felpa a collo alto.
Quando avevamo quattordici anni eravamo compagne di banco in prima superiore; uno dei primi giorni di scuola nell'iniziare con una fatica enorme il suo compito di italiano, un tema ( il cui titolo era "Parlo della mia migliore amica"), dopo aver scritto la prima sudata frase (in italiano non ha mai portato a casa una sufficienza, ma ci ha sempre provato con un impegno non da poco) attirò la mia attenzione con una mezza gomitata a testa bassa. Alzai il naso dal mio foglio e la guardai di sbiego, lei alzò di sbiego il suo foglio e con un labiale ampio, sorridente e ben scandito mi disse "GGG-UUUU-AAAA-RRRR-DDD-AAAA". Aveva scritto "La mia migliore amica è mia (grado di parentela) Mamigà".
Mi sentii un verme. Sul mio tema non avevo deciso di parlare di lei, ma di un'altra persona (che se penso adesso alla persona che allora ritenevo la mia migliore amica mi vengono i brividi. Mica che sia cattiva eh, anzi, è una delle persone che godono della mia massima stima e grande affetto, ma non la considero certo un'amica, però allora la pensavo così) e non avevo il coraggio di dirglielo. Che poi se ci ripenso non ero certo obbligata a farlo, ma nei suoi occhi il punto interrogativo si leggeva come una scritta al neon. Finsi uno starnuto, la professoressa guardò verso di noi e io ripresi a scrivere sperando che "Lei" dalla soggezione non mi guardasse più almeno fino al termine delle due ore in corso. Brutta cosa l'imbarazzo a quattordici anni. L'imbarazzo dei quaranta ha tutto un altro peso, per questo certi ricordi di adolescenza non te li levi dalla testa neanche con l'ipnosi penso.
A distanza di trent'anni il rapporto tra me e lei non è cambiato di molto. C'è stata, appunto, la fetta di vita durata una quindicina di anni in cui ci siamo separate, ma da quando ci siamo riunite il nostro modo di comunicare è tornato quello di una volta.
Quale?
Il suo, quello di raccontarmi ogni virgola di quello che fa.
Il mio, quello di raccontarle solo la fetta di quello che faccio che può generare un discorso e non un monologo.
Il suo, l'ascolto affettuoso.
Il mio, l'ascolto affettuoso.
Che lei, mamma e casalinga per scelta e traguardo a cui aspirava fin da quando ha iniziato a parlare (per il modo in cui è stata educata, boh... mia madre e sua madre sono state due madri dalle idee educative diametralmente opposte) parla di sua figlia, di sua figlia, di sua figlia e di sua figlia. Talvolta anche di sua figlia. E io vorrei davvero parlare del miliardo di altre cose che mi passano per la testa, delle tante cose che mi interessano, che faccio e che vorrei fare oltre ad essere mamma visto che mio figlio ormai è grande e grosso e quasi quattordicenne (la sua ha nove anni), ma ogni volta che cerco di spostare il dialogo su qualcosa che non sia sua figlia, o occasionalmente mio figlio (perchè a onor del vero si, mi chiede spesso come sta dai) , dopo pochi secondi o cerca di dirottare il discorso di nuovo su sua figlia (perchè è l'unico argomento su cui ha qualcosa da dire) o mi ascolta in silenzio. Non sto esagerando. E' esattamente così. Obiettivamente sarò anche fatta male, ma credo che la parola "dialogo" comprenda qualcosa di più vasto.
E' noiosa. C'è poco da fare. Non era noiosa quando avevamo quattordici anni e parlava solo del fidanzato che le sarebbe piaciuto avere e non aveva, dei figli che avrebbe voluto avere, e dell'ultimo numero di "Dolly" uscito, perchè a quattordici anni, figli futuri a parte, io non avevo molte altre cose per la testa. Ma è noiosa adesso. O meglio, IO la trovo noiosa. E non glie l'ho mai detto, non l'ho mai ritenuto necessario, ascoltarla non mi costa niente, e poi se lei è felice e si sente realizzata così, pace. A me non cambia l'esistenza.
Chiamatemi ipocrita. Sono una grande, grandissima ipocrita, perchè non ho mai avuto la sincerità o le palle necessarie per staccarmela di dosso, mi direte.
E invece no. Sapete perchè?
Perchè "Lei" è capace di un grande, grandissimo affetto. E me lo riversa addosso a modo suo. Perchè lei non condivide il mio continuo cercare soddisfazione nella vita anche al di fuori dai miei doveri di madre e di moglie, me lo ha fatto capire tante volte, ma mi ascolta in silenzio perchè sa che per me è importante, e non dice nulla perchè realmente il mio mondo è così diverso dal suo piccolo universo che lei stessa non ha nulla da dire. Io non amo fare monologhi, mi piacciono le conversazioni che siano scambi di idee, informazioni, esperienze sui fronti più disparati, se poi in un certo senso mi proiettano in avanti mi gratificano da matti, per questo con lei mi annoio, e le sue conversazioni monotematiche per me in certe giornate sono pesanti. Ma alla fine, appunto, ascoltarla che mi costa? Probabilmente quando cerco di chiacchierare di cose non riguardanti la mammitudine, io annoio lei. Ma quando lei mi dice "Ti voglio bene Mamiga, se hai bisogno di me sai che puoi chiamarmi quando vuoi come io faccio con te, sai?" so che è sincera. Quel "Ti voglio bene" dichiarato già nero su bianco sul compito di italiano, e mai dimenticato. Non sono molte le persone che dicono "Ti voglio bene" senza ritrattarlo al primo cambio di vento. E non sono molte le persone che, nonostante non condividano il tuo modus vivendi, lo accettano senza giudicarlo nè fartelo pesare perchè tu per loro sei comunque importante.
Ed è per questo che in queste ultime settimane le sto mentendo alla grande.
Tre settimane fa le è caduta sulla testa una tegola grossa e pesante quanto un ballatoio di granito. Indirettamente i pezzi della tegola si sono incastrati anche tra le pieghe della pelle di tutta la nostra famiglia.
A suo padre è stata data la peggior sentenza oncologica che si possa ricevere: tumore al pancreas metastatizzato. Speranze: zero. Conto alla rovescia: meno di un mese da allora. Cacchio, nemmeno il tempo di riuscire a pronunciare la parola "metastasi" senza fermarsi a metà dall'orrore. E siamo a venti giorni. Facile da scrivere adesso, impossibile da pronunciare con la bocca tre settimane fa. E sono tre settimane che cerco di iniziare questo post, riuscendoci solo stanotte. Perchè si, perchè non sapevo da dove iniziare, perchè so che ci sono un paio di persone che leggono che sanno di chi sto parlando e non dovevano sapere prima che lo sapesse chi di diritto (mica per una fissa mia, sia chiaro, ma per desiderio suo), perchè di certe cose come si fa a scrivere quando non si ha ancora metabolizzato quello che sta succedendo?
"Lei" mi chiama e mi uozzappa ogni giorno. La distanza è troppa per fare un salto tra la campanella di inizio e quella della fine della scuola, e in mezzo ci sta tutto il tempo possibile accanto al suo papà e la gestione materiale di tutta la situazione (lei ha una madre fisicamente molto limitata da varie patologie soprattutto scheletriche, e suo fratello lavora e fa quel che può). "Lei" si sfoga, piange, domanda. "Lei" ha voluto che le spiegassi com'è fatto un ambulatorio oncologico prima di portarci il padre, perchè per lei "pediatra" è un termine che usa con la stessa familiarità con cui prende una forchetta dal cassetto in cucina, ma "oncologo" era una parola immensa ma vuota, una enorme incognita che incuteva soggezione, come il lupo mannaro per un bambino, e si era fatta l'idea che in un ambulatorio oncologico ci fosse chissà quale odore, oggetto, ambientazione. "Lei" mi ha chiesto cos'è un catetere, come è fatta una pompa per la morfina, se è facile fare una iniezione sottocute, perchè non vuole fare la figura dell'ignorante quando arriva il medico per la domiciliare a suo padre a portarle queste cose. "Lei" ogni volta che cambia qualcosa, o che un medico le dice qualcosa, o ha occasione di riuscire a piangere, me lo dice, e mi chiede se è normale. Perchè "Lei" ripete spesso la frase "Tu ci stai passando da anni, tu puoi capirmi.".
E io le dico di si, e la lascio sfogare. E lei dopo un po' si calma. Riprende grinta. Riesce a ridere delle mie battute sceme.
E le dico di si sapendo di mentire, ma mentire forte. Ipocrita. Ipocritissima Mamiga. Perchè io ballonzolo con il cancro mio e di mia madre e tutto quello che c'è dentro a questa sfera maledetta dal duemiladieci, è vero. Ma io, signori miei, ho speranze più che fondate di uscirne in piedi di nuovo, giustificate dalle statistiche, sorrette dai mezzi a disposizione. Suo padre no. Perchè lei ha solo una vaga idea della differenza tra il mio cancro e quello di suo padre, lei è convinta che il grosso della differenza sta nel fatto che io sono sotto controllo da anni e lui no, per questo è stato preso tardi. Valle a spiegare che il tumore al pancreas è un assassino che anche a scovarlo presto, se hai il culo di scovarlo quando è ancora circoscritto lì, è peggio di una biscia impazzita. Io non so cosa vuol dire sentirsi dare una sentenza anzichè una diagnosi. So cos'è il terrore, ma non il terrore firmato dal medico. So cosa vuol dire reggere il pianto di una persona malata di cancro, non quello di una che morirà di cancro da lì a là. Anzi, si, l'ho provata quella sensazione dolorosa una volta, una volta soltanto, ma non ero coinvolta emotivamente come lo si è quando è da un genitore che ci si sta per separare. Posso dire di capirla? No. Ma lei è convinta di si, e glielo direste voi a una persona che vi si affida così ciecamente in un momento del genere, che ci state solo provando, a sorreggerla? Che state andando per tentativi? Che se i tentativi fatti di "chiamami anche di notte se vuoi", "avete tante persone che vi vogliono bene", "gli stai dando tutto l'amore che puoi", "non sei debole perchè piangi, non sentirti in colpa, il forte piange ma rimane e si tira su le maniche come te", se questi tentativi la reggono in piedi è solo per puro culo e non sono dettati dall'esperienza come lei crede? Io mi sto affidando solo al mio istinto, ma sono arrivata al punto da temere di dire la cosa sbagliata prima o poi, e di finire spedita a quel paese. Però finora questo non è successo.
E poi c'è l'altro lato di questa vicenda che non deve sapere mai. Quando è iniziata stavo ancora aspettando il mio istologico definitivo. Vivere la pesantezza di questi mesi e accollarmi anche parte della sua. Lei non si è posta il problema "Mamigà potrà o non potrà?", è partita in quarta, e Mamigà inizialmente ha avuto un rifiuto interiore incredibile, una lotta mostruosa tra l'affetto per lei e l'istinto di proteggersi, senza trovare alla fine nessuna forma di compromesso. Mi sono sentita travolta, quasi trascinata, e prima di riuscire a fare mente locale e trovare il giusto posto per lei nei miei pensieri e nelle mie giornate, sono passata attraverso qualche notte quasi insonne ed incubi. E un picco di attacchi d'ansia aggiuntivi di cui ora non ho certo bisogno.
Poi, la decisione. Fredda e calcolata, forse, ma mi ha permesso di arrivare a stasera più serenamente.
Ho deciso che non posso salvare nessuno in questo momento: sto lottando per la mia vita, non sto curando una carie. Ho deciso che non posso essere empatica h24 con chi lotta più di me, o in sala operatoria non ci torno (a proposito, l'ultimo intervento ho dovuto rinviarlo, ho l'influenza). Ho deciso che dentro di me ci devono essere spazi e tempi definiti e distinti per questa cosa. Ho deciso di mettere dei paletti.
Fino a stasera.
E' la sera della vigilia di Natale. Poche ore fa suo padre è stato indotto farmacologicamente in un torpore dal quale non si sveglierà mai più. Stasera sono anche i miei, di ricordi, che riaffiorano. I ricordi di quest'uomo che in circostanze particolari tanti e tanti anni fa ha fatto per me moltissimo, in silenzio. Avrei dovuto andare a cantare stanotte, ma la musica, la mia amata musica, da ieri mi dà fastidio, stride nella mia testa come le unghie sulla lavagna, e non ci andrò. Stasera "Lei" lo veglia, aspettando l'inevitabile, e le ho promesso che avrei vegliato con lei da lontano, perchè in qualsiasi momento "Lei" si sentisse crollare io nel modo in cui posso ci voglio essere. Perchè "Lei" dice "tu puoi capirmi", e questa sarà la notte peggiore della sua vita.
giovedì 7 dicembre 2017
Ventidue più ventidue
Ieri pomeriggio il braccio operato mi faceva un male cane. Avevo messo in conto di passare le ore pomeridiane in cucina e a stirare due cose (si, da qualche giorno ho anche ricominciato a stirare), ma ho dovuto cedere e star ferma. Se Dio o chi per lui ci ha fatto con due braccia un motivo evidentemente c'è, e se uno è totalmente fuori uso, fai poco.
C'è che ieri mattina c'era un sole meraviglioso sopra il paese congelato: mi sentivo talmente in forze e talmente di buon umore che verso le nove ho preso, mi sono truccata e pettinata, sono salita in macchina dopo aver chiuso casa, e gasatissima dopo il traguardo dei 12+12 di venerdì mi sono fatta i "22+22". Vialetto --->Centro Commerciale--->Vialetto. Non solo. Ho contribuito a far girare l'economia con i miei primi (e penso unici per quest'anno) acquisti natalizi e non. Ho preso sette paia di calzini nuovi per il Power misura 43-46, una sciarpa per il Gatto Alfa (che il Power mi aveva chiesto di comprare al posto suo per fare il suo regalo natalizio al padre), una matita per gli occhi color cioccolato/borgogna in supermegafotonicaofferta (un euro e 89, cifrona, non potevo lasciarla nel cesto, mi chiamava "prendimi, un colore come questo non ce l'hai!", l'ho usata oggi per la prima volta come base per un ombretto molto simile, stupenda), tre rotoli di carta da regalo, sei biglietti di auguri, due libri per bambini, tre reggiseni senza ferretti/imbottiture/sagomature per il mese prossimo quando toglierò (si spera, perchè viste le arie è meglio dirlo a bassa voce) l'imbragadura medievale, e un caffè al bar. Il miglior caffè macchiato che abbia preso negli ultimi due mesi. Ho sempre sostenuto che uno degli ingredienti fondamentali che rendono un caffè buono è la compagnia, questo caffè è stata una eccezione.
Perchè si. Perchè c'era un gran caos di gente nei vari negozi, e io odio il caos, soprattutto il caos natalizio, le code alle casse, la gente che si lamenta per la lentezza delle cassiere, la calca davanti agli scaffali del Lego, la riga di mariti annoiati tutti identici tra loro in capo alle corsie in attesa delle mogli, i tipi degli stand del mercatino all'interno dei corridoi del centro commerciale che ti agganciano ogni due passi sventolandoti addosso il loro volantino pubblicitario"signora, ha mai provato la crema alla bava di lumaca?"; ma da questo caos sono uscita solo ed esclusivamente perchè si avvicinava mezzogiorno, e se all'una meno cinque devo essere a scuola a ritirare il Power dopo aver perlomeno imbastito a spanne un pasto da ultimare dopo averlo riportato a casa, 22 chilometri con relativo traffico di quella fascia oraria devo iniziare a mezzogiorno almeno a percorrerli. Ma c'era il sole, camminavo bene, respiravo bene, sapevo cosa volevo acquistare e non avevo nessun impedimento a farlo, nessun fastidio, nessun intrigo, nessun dolore, nessuna ansia, solo l'accortezza di tenere la borsa sulla spalla destra (una scemenza, ma non automatica dopo quarant'anni che la porto sulla sinistra). Tre ore su e giù dall'auto, avanti e indietro tra i vari stabili, tra i vari ingressi, in completa autonomia. La normalità che tempo fa chiamavo "noia".
Come cambia l'aspetto delle cose, quando le si guarda con un diverso paio di occhiali.
Cappero se mi faceva male il braccio ieri pomeriggio. Mi dava fastidio perfino la manica del maglione di pile che lo avvolgeva. C'è stato un momento, durato una mezz'ora, in cui mi sentivo addirittura l'espansore nuovamente conficcato sullo sterno come appena messo (da quando lo hanno iniziato a gonfiare si è lievemente sollevato su quel punto, non sta più poggiato a piatto, dandomi ormai da giorni molto meno fastidio): devono essere stati i muscoli risentiti dalla resistenza alle vibrazioni durante la guida. Un dolore... Ho preso i miei antinfiammatori e pace.
Ma mi è sembrato di respirare come se fosse la prima volta dopo un'eternità.
C'è che ieri mattina c'era un sole meraviglioso sopra il paese congelato: mi sentivo talmente in forze e talmente di buon umore che verso le nove ho preso, mi sono truccata e pettinata, sono salita in macchina dopo aver chiuso casa, e gasatissima dopo il traguardo dei 12+12 di venerdì mi sono fatta i "22+22". Vialetto --->Centro Commerciale--->Vialetto. Non solo. Ho contribuito a far girare l'economia con i miei primi (e penso unici per quest'anno) acquisti natalizi e non. Ho preso sette paia di calzini nuovi per il Power misura 43-46, una sciarpa per il Gatto Alfa (che il Power mi aveva chiesto di comprare al posto suo per fare il suo regalo natalizio al padre), una matita per gli occhi color cioccolato/borgogna in supermegafotonicaofferta (un euro e 89, cifrona, non potevo lasciarla nel cesto, mi chiamava "prendimi, un colore come questo non ce l'hai!", l'ho usata oggi per la prima volta come base per un ombretto molto simile, stupenda), tre rotoli di carta da regalo, sei biglietti di auguri, due libri per bambini, tre reggiseni senza ferretti/imbottiture/sagomature per il mese prossimo quando toglierò (si spera, perchè viste le arie è meglio dirlo a bassa voce) l'imbragadura medievale, e un caffè al bar. Il miglior caffè macchiato che abbia preso negli ultimi due mesi. Ho sempre sostenuto che uno degli ingredienti fondamentali che rendono un caffè buono è la compagnia, questo caffè è stata una eccezione.
Perchè si. Perchè c'era un gran caos di gente nei vari negozi, e io odio il caos, soprattutto il caos natalizio, le code alle casse, la gente che si lamenta per la lentezza delle cassiere, la calca davanti agli scaffali del Lego, la riga di mariti annoiati tutti identici tra loro in capo alle corsie in attesa delle mogli, i tipi degli stand del mercatino all'interno dei corridoi del centro commerciale che ti agganciano ogni due passi sventolandoti addosso il loro volantino pubblicitario"signora, ha mai provato la crema alla bava di lumaca?"; ma da questo caos sono uscita solo ed esclusivamente perchè si avvicinava mezzogiorno, e se all'una meno cinque devo essere a scuola a ritirare il Power dopo aver perlomeno imbastito a spanne un pasto da ultimare dopo averlo riportato a casa, 22 chilometri con relativo traffico di quella fascia oraria devo iniziare a mezzogiorno almeno a percorrerli. Ma c'era il sole, camminavo bene, respiravo bene, sapevo cosa volevo acquistare e non avevo nessun impedimento a farlo, nessun fastidio, nessun intrigo, nessun dolore, nessuna ansia, solo l'accortezza di tenere la borsa sulla spalla destra (una scemenza, ma non automatica dopo quarant'anni che la porto sulla sinistra). Tre ore su e giù dall'auto, avanti e indietro tra i vari stabili, tra i vari ingressi, in completa autonomia. La normalità che tempo fa chiamavo "noia".
Come cambia l'aspetto delle cose, quando le si guarda con un diverso paio di occhiali.
Cappero se mi faceva male il braccio ieri pomeriggio. Mi dava fastidio perfino la manica del maglione di pile che lo avvolgeva. C'è stato un momento, durato una mezz'ora, in cui mi sentivo addirittura l'espansore nuovamente conficcato sullo sterno come appena messo (da quando lo hanno iniziato a gonfiare si è lievemente sollevato su quel punto, non sta più poggiato a piatto, dandomi ormai da giorni molto meno fastidio): devono essere stati i muscoli risentiti dalla resistenza alle vibrazioni durante la guida. Un dolore... Ho preso i miei antinfiammatori e pace.
Ma mi è sembrato di respirare come se fosse la prima volta dopo un'eternità.
sabato 2 dicembre 2017
Dentro e fuori, dentro e fuori...
...dalla sala operatoria.
Giovedì pomeriggio mi hanno chiamato per il ritiro dell'istologico. Sono andata in palla per ore, perchè ero convinta che me lo avrebbe consegnato l'oncologo, e invece no: ero attesa dal chirurgo senologo che mi ha operato. Mi sono fatta un milione di paranoie, perchè l'ultima volta che il senologo ha consegnato a mia madre il referto al posto dell'oncologo è stato per dirle che sarebbe tornata in sala operatoria di lì a pochi giorni per un nuovo intervento. Ne ho parlato in un gruppo, l'unico gruppo FB in tema a cui mi sono iscritta poche settimane fa (e solo e soltanto perchè le partecipanti hanno o hanno avuto il tumore al seno prima dei 45 anni, io ho le mie idee sui gruppi FB, ma non è questo il contesto in cui sciorinarle), e tutte coloro che mi hanno risposto mi hanno confermato che ora la prassi è questa: il referto lo consegna il chirurgo, in oncologia pare si passi solo in seguito, a differenza di quanto ho sperimentato sette anni fa (quando appunto la visita post intervento la feci con l'oncologo, contestualmente alla consegna del piano delle cure che mancavano da fare). Me ne sono fatta una ragione, mi sono rasserenata, e ieri mi sono recata a visita da sola.
Per sentirmi dire quello che non avrei voluto: che appunto tornerò in sala operatoria entro il 20 dicembre. Sembra che la massa tumorale fosse ancorata al derma, hanno trovato cellule maligne invisibili all'occhio troppo vicine al margine di resezione, che va quindi ampliato di qualcosa. Dei millemila linfonodi tolti, il sentinella e soltanto quello era metastatico. Il medico mi ha detto che la prognosi non cambia, non cambia nemmeno il piano terapeutico da affrontare, va solo rinviato di qualche settimana per permettere la cicatrizzazione della nuova sutura. Di positivo c'è che questo nuovo intervento avverrà in day surgery, in anestesia locale, in parziale sedazione. Ancora più positivo, e ho voluto accertarmene per i miei nervi, saranno presenti in sala operatoria assieme al chirurgo plastico del Big Hospital (che non ha la mia simpatia per un milione di ragioni che non ho ancora elencato) i due chirurghi senologi che mi stanno seguendo alternandosi, di cui a pelle ho sempre sentito di potermi fidare, e dalla infinita pazienza. Mi mettono a mio agio. E non è un aspetto trascurabile della menata.
Non avevo una Bestia Bis. Avevo (od ho?) una MER... di Bestia Bis.
Non ho paura. Sono solo avvilita per le tempistiche che si allungano, per la chemio e il riempimento dell'espansore che si rimandano, per l'aggiungersi di volta in volta di crisi d'ansia. Mi dispiace da morire il non riuscire a dedicare le energie a quello che vorrei, in queste settimane che di solito erano piene di pensieri rivolti al Natale e a tutto quello che organizzavo tra il pranzo in famiglia e i pensieri da consegnare alle persone care. Faccio di tutto per concentrarmi sull'idea che tra un anno, se tutto va come deve, riavrò la mia vita come era prima e forse meglio di prima, con i miei capelli in testa, un seno nuovo di pacca che non risentirà mai della forza di gravità col passare degli anni come il gemello, con le forze ritrovate e con la mia banale quotidianità di cui giuro che non mi lamenterò più. Mi sto quasi beando all'idea che avevo messo in preventivo di fare il Natale in sordina nel non sapere come avrei reagito alla chemio (perchè anche se l'ho già fatta, non è detto che la storia si ripeta in maniera identica), mentre ora so che riuscirò a distinguere il gusto dei tortellini da quello del panettone (dato che la chemioterapia mi aveva azzerato per mesi totalmente la percezione di qualsiasi gusto).
Magra consolazione? Forse. Ma ho bisogno di attaccarmi anche a queste cose. Ho bisogno di attaccarmi all'idea dell'albero di Natale che farò la prossima settimana con l'aiuto di mio figlio, di come lo voglio e del milione di luci e di addobbi a forma di cuore che voglio che abbia, roba che "Vaticano spostati, il mio deve vedersi fino a Lignano Beach". E a tante altre piccolezze che mi aiutano con successo a non farmi travolgere da pensieri inutili e fuori tempo.
Ah, ho anche ricominciato finalmente a guidare per distanze superiori ai quattro km (tanto sono riuscita a fare la prima volta dopo più di un mese per andare in farmacia, qualche giorno fa). Ieri sono andata a visita da sola: dodici chilometri più dodici in scioltezza. Ho sentito solo un po' di fastidio tra la spalla e il gomito, nella parte sotto, nel governare il volante mentre il braccio destro usava il cambio o nel fare la retromarcia (che io non so fare guardando gli specchietti, ma solo torcendo il busto). Ma per il resto non ho avuto problemi. E questa ritrovata autonomia mi ha restituito una buona dose di sicurezza e di fiducia.
Giovedì pomeriggio mi hanno chiamato per il ritiro dell'istologico. Sono andata in palla per ore, perchè ero convinta che me lo avrebbe consegnato l'oncologo, e invece no: ero attesa dal chirurgo senologo che mi ha operato. Mi sono fatta un milione di paranoie, perchè l'ultima volta che il senologo ha consegnato a mia madre il referto al posto dell'oncologo è stato per dirle che sarebbe tornata in sala operatoria di lì a pochi giorni per un nuovo intervento. Ne ho parlato in un gruppo, l'unico gruppo FB in tema a cui mi sono iscritta poche settimane fa (e solo e soltanto perchè le partecipanti hanno o hanno avuto il tumore al seno prima dei 45 anni, io ho le mie idee sui gruppi FB, ma non è questo il contesto in cui sciorinarle), e tutte coloro che mi hanno risposto mi hanno confermato che ora la prassi è questa: il referto lo consegna il chirurgo, in oncologia pare si passi solo in seguito, a differenza di quanto ho sperimentato sette anni fa (quando appunto la visita post intervento la feci con l'oncologo, contestualmente alla consegna del piano delle cure che mancavano da fare). Me ne sono fatta una ragione, mi sono rasserenata, e ieri mi sono recata a visita da sola.
Per sentirmi dire quello che non avrei voluto: che appunto tornerò in sala operatoria entro il 20 dicembre. Sembra che la massa tumorale fosse ancorata al derma, hanno trovato cellule maligne invisibili all'occhio troppo vicine al margine di resezione, che va quindi ampliato di qualcosa. Dei millemila linfonodi tolti, il sentinella e soltanto quello era metastatico. Il medico mi ha detto che la prognosi non cambia, non cambia nemmeno il piano terapeutico da affrontare, va solo rinviato di qualche settimana per permettere la cicatrizzazione della nuova sutura. Di positivo c'è che questo nuovo intervento avverrà in day surgery, in anestesia locale, in parziale sedazione. Ancora più positivo, e ho voluto accertarmene per i miei nervi, saranno presenti in sala operatoria assieme al chirurgo plastico del Big Hospital (che non ha la mia simpatia per un milione di ragioni che non ho ancora elencato) i due chirurghi senologi che mi stanno seguendo alternandosi, di cui a pelle ho sempre sentito di potermi fidare, e dalla infinita pazienza. Mi mettono a mio agio. E non è un aspetto trascurabile della menata.
Non avevo una Bestia Bis. Avevo (od ho?) una MER... di Bestia Bis.
Non ho paura. Sono solo avvilita per le tempistiche che si allungano, per la chemio e il riempimento dell'espansore che si rimandano, per l'aggiungersi di volta in volta di crisi d'ansia. Mi dispiace da morire il non riuscire a dedicare le energie a quello che vorrei, in queste settimane che di solito erano piene di pensieri rivolti al Natale e a tutto quello che organizzavo tra il pranzo in famiglia e i pensieri da consegnare alle persone care. Faccio di tutto per concentrarmi sull'idea che tra un anno, se tutto va come deve, riavrò la mia vita come era prima e forse meglio di prima, con i miei capelli in testa, un seno nuovo di pacca che non risentirà mai della forza di gravità col passare degli anni come il gemello, con le forze ritrovate e con la mia banale quotidianità di cui giuro che non mi lamenterò più. Mi sto quasi beando all'idea che avevo messo in preventivo di fare il Natale in sordina nel non sapere come avrei reagito alla chemio (perchè anche se l'ho già fatta, non è detto che la storia si ripeta in maniera identica), mentre ora so che riuscirò a distinguere il gusto dei tortellini da quello del panettone (dato che la chemioterapia mi aveva azzerato per mesi totalmente la percezione di qualsiasi gusto).
Magra consolazione? Forse. Ma ho bisogno di attaccarmi anche a queste cose. Ho bisogno di attaccarmi all'idea dell'albero di Natale che farò la prossima settimana con l'aiuto di mio figlio, di come lo voglio e del milione di luci e di addobbi a forma di cuore che voglio che abbia, roba che "Vaticano spostati, il mio deve vedersi fino a Lignano Beach". E a tante altre piccolezze che mi aiutano con successo a non farmi travolgere da pensieri inutili e fuori tempo.
Ah, ho anche ricominciato finalmente a guidare per distanze superiori ai quattro km (tanto sono riuscita a fare la prima volta dopo più di un mese per andare in farmacia, qualche giorno fa). Ieri sono andata a visita da sola: dodici chilometri più dodici in scioltezza. Ho sentito solo un po' di fastidio tra la spalla e il gomito, nella parte sotto, nel governare il volante mentre il braccio destro usava il cambio o nel fare la retromarcia (che io non so fare guardando gli specchietti, ma solo torcendo il busto). Ma per il resto non ho avuto problemi. E questa ritrovata autonomia mi ha restituito una buona dose di sicurezza e di fiducia.
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